domenica, novembre 05, 2006

Massimiliano Matarazzo

Storia Magistre…

“Quando per esempio un Greco si recava a Babilonia, Zeus e Apollo passavano in second’ordine e egli si sentiva tenuto a rispettare specialmente gli dei indigeni. È questo il significato che avevano gli altari con la scritta : “Agli dei sconosciuti ”…” [Oswald Spengler - Il tramonto dell’occidente.]

- Più di un autore, parlando della storia, ha speso parole o anche libri interi per cercare di dimostrare come questa risulti essere a volte “un non so che” di circolare, di eventi che tendono ad inseguirsi e ripetersi, a ripresentarsi nel tempo, a distanza di secoli magari, con caratteristiche simili, con forme quasi uguali tra loro. Da storici veri e propri quali Spengler e Toynbee, a filosofi dai caratteri Nietscheani di fama più o meno internazionale, abbiamo avuto spesso quasi una raccolta di avvenimenti o episodi che possano avvalorare idee e tesi che confermino tali teorie. Spesso questi pensatori usano accostare avvenimenti potenzialmente simili tra loro, ad idee però, bisogna dirlo, di comparazione più vaghe che ovvie.
Lungi da me in questa sede accanirsi contro gli autori di una tale e coraggiosa teoria, ma anzi appare curioso cercare di spiegare come provando a leggere ed interpretare quelli che sono questi nostri anni, non si finisca per trovare impronte familiari con gli anni dei secoli passati della caduta di uno dei più grandi, e forse più duraturi, imperi di tutti i tempi, quello Romano.
Sicuramente più di uno di questi studiosi avrebbe preso gli avvenimenti, anche quelli più recenti della nostra storia, per avere una ricchezza di esempi a sua propria disposizione certo che la loro quantità non risulta indifferente, e certo del fatto che sommariamente questi si prestano molto bene alla causa. Come un grande filone d’oro nel selvaggio west, il miraggio di un così semplice paragone infatti può saltare agli occhi anche ai più scettici o miscredenti.
Durante la caduta dell’impero romano, che mai come in questo caso è da ricordare come un processo lento di decenni, di qualche generazione anche, e non certo effetto di un singolo evento come una guerra o magari un atto di insubordinazione o cose di questo genere, durante la caduta dell’impero romano dicevamo, l’erosione lenta dei suoi sistemi ben consolidati di mantenimento del potere costituito può essere ridotta, in maniera molto riduttiva e quasi semplicistica, a tre cause politiche ben precise forse un po’ meno note. La prima era dovuta ad uno spostamento, ad una ricerca meglio, dei popoli oltre confine, di ricchezze più “visibili” o immediate di quelle di cui gia usufruivano: vuoi terre, vuoi bottini, vuoi donne e bestiame, cose che li spinse in maniera sempre più marcata e determinante a premere sui confini dell’impero. Insomma la prima causa erano certo le così dette invasioni barbariche.
Il secondo innegabile fattore, che si venne a scoprire piuttosto nel tempo più che risultare agli occhi palesemente come il primo, era una lenta ma sempre più notevole unione, per osmosi potremmo dire visto il fatto che veramente si poteva percepire solo a distanza di lunghi anni, un’unione tra le popolazioni di confine e quelle che al di qua del confine gia vivevano. I popoli che infatti non potevano, per ricchezze e potenza o solo perché non erano in grado per disorganizzazione, condurre guerre durature e continue contro il nemico romano cominciarono negli anni a commerciare con questo ed impararono ad avere rapporti più basati sulla compravendita, con le genti messi a difesa dei confini, che non sullo scontro armato sul campo. Se poi si pensa che vista la smisurata lunghezza dei confini era solo nelle zone considerate più “calde” che veniva inviato un esercito composto da soli romani, ma che anzi solitamente solo il capo dell’esercito era un romano, accadeva che a combattere, o ad essere addestrati per farlo, erano genti arruolate sul luogo che spesso per povertà e povertà di costumi si sentivano più vicini agli invasori che non ai propri padroni.
Con il tempo perciò molti, tra le popolazioni oltre confine, grazie alla corruzione dilagante, grazie a concessioni dette più semplicemente “mazzette”, grazie anche a veri e propri sforamenti nelle mura di confine, riuscivano ad entrare, ad immigrare nel grande impero romano senza colpo ferire, a farsi una vita al di qua delle mura, ed a volte presi per cittadini a tutti gli effetti venivano anche arruolati e mandati a combattere contro quelli che erano stati allora le persone con cui erano vissuti, le genti della loro stessa popolazione.
Come non prefigurarsi una caduta massiccia dei confini in un secondo momento, viste le premesse?
Terza e forse principale causa della caduta dell’impero fu probabilmente proprio quella corruzione che non trovava più freno e denunce.
È vero che se nell’immaginario collettivo di oggi la corruzione è vista come un mostro grande e grosso che i cattivi dello Stato e del governo alimentano contro i buoni e i saggi moralisti i quali lo additano ormai impotenti al misfatto, in realtà non è tanto differente trovarla in quei fatti un po’ più sporchi del dovuto (difficili da ritenere troppo sporchi, per noi che li vediamo succedere “dal di dentro”), un po’ più sporchi degli altri, che oggi ci vediamo scorrere non sempre silenziosamente sotto gli occhi…
Si dice allora che la scarsa manutenzione delle strade dell’impero, a lungo andare, abbiano impedito ai messaggi di raggiungerne i confini, e le notizie di arrivare a Roma in maniera tanto celere da causare le numerose sconfitte dell’esercito; non lontano da questo potremmo vedere i disastri dei nostri cantieri, spesso subappaltati a ditte sempre più speculatrici e meno competenti, o che tendono più a far si che possano poi curarsi della manutenzione dell’opera commissionata che non della buona costruzione della stessa.
Visto poi che non si parla di una grossa corruzione a livello militare che avrebbe potuto investire l’esercito dell’impero romano come successe in Vietnam, dove i capi militari di Hanoi chiedevano tangenti anche solo per consentire le più semplici missioni di offesa o di difesa, non si può non pensare ad una corruzione, quella romana, che si trasforma e che ha le sembianze dei piccoli o grandi abusi di potere, dei sotterfugi più o meno conclamati per aggirare le leggi, quelle stesse leggi che quasi come oggi sembrano sempre più lontane dai costumi sociali da non rispecchiare le esigenze della vita di tutti i giorni, quel tipo di corruzione insomma, o se volete malcostume, che siamo soliti notare e deprecare ogni giorno anche noi oggi. Corruzione questa che sembra più apparire come ombra dello Stato, come Stato nello Stato, che non come qualcosa di riconoscibile in un singolo fatto e di facilmente additabile perché uno, e che dilagata in maniera massiccia ed irrefrenabile ha causato lo sgretolarsi di un sistema tanto efficace quale era quello del mantenimento del governo romano.
Forse infine, uno degli esempi più toccanti e curiosi che è possibile riportare in quest’articolo di somiglianza tra le due epoche, cioè quella nostra e quella dell’impero romano, è senz’altro quello che vede nel 2001 due civiltà trovarsi improvvisamente a confronto. Con la caduta delle famose torri americane e con le indagini che ne sono seguite, il fatto di come la corruzione avrebbe permesso l’entrata di persone non del tutto conformi agli standard, dai confini americani e l’uscita successivamente di possibili collaboratori agli attentati, certo non può non stuzzicare le similitudini di chi vede anche nell’immigrazione di massa le nuove invasioni barbariche.
Ed il fatto di come l’immigrazione clandestina in Europa vede sempre, fortunatamente, un atteggiamento di indiscussa tolleranza da parte dei più nei confronti di chi pacificamente viene a vivere da noi e che ormai, rispettanti dei costumi e delle leggi, vediamo vivere tra noi come noi, non può che far tornare la mente a quel lontano periodo della storia.
Di come poi, per continuar gli esempi, il nostro occidente stia imponendo il suo stile di vita, i suoi costumi e le sue merci tra le “genti oltre confine” è anche futile parlarne…
Per questi e mille altri esempi di vaghe somiglianze si potrebbe parlare forse di eventi e situazioni che ritornano nel tempo, o forse meglio è un’occasione per mettere delle civiltà di tempi differenti a confronto, ma forse ancora meglio e ben più semplicemente non sarebbe difficile usare tali similitudini per ribadire un concetto fondamentale nella storia dell’uomo, cioè che proprio lo studio accurato della storia stessa ci può permettere di conoscere meglio il nostro presente. È una storia magistre che ci può fare da piccolo lumino per il futuro, illuminando comunque a chiare luci i problemi di oggi ed anche le strade nefaste da non percorrere. Certo non è la mistificazione e la generalizzazione delle cose e delle cause che possono portare ai presupposti per una via sicura e priva di equivoci.
Daniele Di Giovanni

Territori di gusto

Al ritorno dalle vacanze molti di noi si sono mossi verso altri luoghi, in Italia o all’estero, cambiando abitudini (magari svegliandosi all’una piuttosto che alle sei e mezza come ogni mattina) e in parte alimentazione. Ogni luogo conserva prodotti tipici e vini da abbinare, di questo sono piene le varie rubriche ormai in voga in giornali e telegiornali, ma vogliamo parlare di un associazione che del rapporto tra territorio, vini e cultura del vivere bene ha fatto una bandiera ed una filosofia lo “Slow food”. L’associazione, rigorosamente non profit, è nata in Italia nel 1986 e si è estesa in 130 paesi nel mondo. Nasce come risposta al fast food, come il nome stesso dichiara, opponendosi tanto all’omogeneizzazione dei sapori quanto all’idea che il pasto sia qualcosa da “ottimizzare” quindi mangiare quello che ci serve nel minor tempo possibile. Promuove l’educazione all’enogastronomia consentendo al consumatore di scegliere ciò che gradisce fornendo in primo luogo la formazione di un gusto più raffinato, in questo modo tenta di indirizzare la spesa verso quei produttori che mantengono alti standard di qualità e produzioni salutari.
Tra le attività dell’associazione troviamo una serie di pubblicazioni che vanno dalle guide delle osterie, locali, vini e prodotti tipici e per chi ama viaggiare col palato “Itinerari slow” consente di muoversi senza fretta tra arte, vino, natura e gastronomia scoprendo in che modo le varie popolazioni sono riuscite ad armonizzare il territorio alla tavola.
Per chi volesse approfondire l’argomento consigliamo il saggio di Gorge Ritzer, “La globalizzazione del nulla”, non il lavoro di un nichilista geopolitico bensì un docente di sociologia che ha analizzato i meccanismi alla base della “macdonaldizzazione della società”. In riferimento al tema dell’articolo si affronta il capitolo dei “non-luoghi”, acquacoltura praticata in maniera meccanica, bovini allevati in spazi troppo piccoli o fattorie dove i polli vengono fatti crescere e macellare in poche settimane e al tempo stesso ristorazioni identiche da Tokyo a New York che non consentono al palato di godere della differenza profonda dei luoghi.
Slow Food non è soltanto gastronomia ed editoria, è anche una fondazione attiva nella difesa della Biodiversità ed un’Universita degli studi di scienze gastronomiche (di sicuro interesse è il Master in Food Culture rivolto ad un pubblico internazionale per fornire una conoscenza approfondita e specializzata del concetto di qualità).
Un appuntamento impedibile per tutti gli enogastronomi è il Salone del Gusto, presente a Torino dal 26 al 30 ottobre 2006, un ampio spazio espositivo nel quale vedere le produzioni artigianali, comprendere come si muova il mercato della gastronomia locale nel mondo e scoprire l’altra faccia del pianeta dell’alimentazione degustando prodotti eccellenti ma poco conosciuti. Oltre al settore di diffusione enogastronomico l’evento ha proposto una serie di conferenze e incontri che vanno dal rapporto tra agricoltura sostenibile e biodiversità al legame tra conflitti armati e produzioni agricole.
Non sono mancati gli accostamenti tra cibo e letteratura, un esempio è l’intervento di Edoardo Sanguinetti con sue incursioni nelle avanguardie storiche dove il cibo diventa occasione per uno spettacolo estremamente provocatorio e divertente; il tutto in collaborazione con la Fondazione per il libro.
Daniele Di Giovanni

Riflessione sulle parole del pontefice.

Le conseguenze delle parole sono tanto più forti quanto più la voce è autorevole. Questo semplice monito si è mosso in direzione del più alto rappresentante della Chiesa Romana, accusato di una mancanza di prospettiva politica e diplomatica, in un periodo storico in cui i rapporti con la cultura islamica sono estremamente tesi la ragionevolezza è un lusso che non ci si può concedere a cuor leggero. Quando la diffusione delle idee è affidata ad uno slogan la scelta del medesimo deve essere misurata e precisa: in un discorso di ampio respiro, in una citazione, è semplice, fin troppo semplice, togliere le virgolette e affidarla al relatore. Anche quando il relatore chiarisce in modo inequivocabile la fonte del testo a cui fa riferimento, anche quando ciò che si vuole mettere in evidenza lo si scrive subito dopo la citazione : “L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, leggere quello che si vuole è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. È più conveniente porre l’accento sull’osservazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo :“ Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. Il fatto poi che il discorso sia stato un modo per introdurre i rapporti tra logos e fede è semplicemente un punto marginale. Puntare l’accento sulla trascendenza assoluta o relativa della volontà divina per le due religioni non sarebbe stato egualmente scenografico, non si scende in piazza o non si manifesta o non si uccide per il centro del discorso, per quel che il pontefice voleva dire; le citazioni trattate come slogan sono formalmente perfette per diffondersi come epidemia.
La serena diffusione e commento di idee mal si concilia con un ruolo politico che si richiede, ed i commenti che si sono diffusi sui quotidiani avevano tale matrice, al teologo Ratzinger. Un ruolo politico di rasserenamento e pacificazione, anche quando lo scontro è portato avanti da un’equipe intellettuale che si mobilita per fare in modo che l’occidente non prenda minimamente posizione neppure attraverso una citazione, anche quando l’autore della stessa prende le distanze dal pensiero riportato, come se avesse precedentemente ammesso di concordare con le posizioni dell’autore.
La presa di distanza ufficializzata al mondo arabo attraverso un mea culpa del pontefice fa pensare alle parole di Oriana Fallaci nella “Forza della Ragione”: «C’è il declino dell’intelligenza. Quella individuale e quella collettiva. Quella inconscia che guida l’istinto di sopravvivenza e quella conscia che guida la facoltà di capire, apprendere, giudicare, e quindi distinguere il Bene dal Male… Il declino dell’intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che accade oggi in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione… Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi ci vuole passione. Ma qui non si tratta di vivere e basta. Qui si tratta di sopravvivere. E per sopravvivere ci vuole la Ragione. Il raziocinio, il buonsenso, la Ragione…»
Nessuno si aspetta che un pontefice della preparazione culturale di Raztinger abbia potuto commettere un banale errore, o che non abbia preso in considerazione le conseguenze delle proprie azioni. Si può accusarlo di scarsa sensibilità politica ma non certo di scarso intelletto. È auspicabile che un giornalista non debba correggere i discorsi di un pontefice, in tal caso sarebbe ben difficile continuare a considerarlo un valido referente tanto della cristianità quanto del dibattito culturale e politico mondiale.
Daniele Di Giovanni

La morte di una voce


Un proverbio diceva: pesa più la penna che la vanga; pesa più la penna quando lo scrivere vuol dire mostrare, chiedere e non essere semplicemente un portavoce, un divulgatore di regime. Una penna solida, pungente e con la volontà di mettere in chiare le motivazioni di un azione.
Stiamo parlando dell’assassinio della giornalista russa Anna Politkoskaya, il 7 ottobre 2006. La sua redazione, quella del bisettimanale Novaia Gazeta, ha ipotizzato due possibili moventi, entrambi riconducibili a Ramsan Kadyrov: “possiamo avanzare due ipotesi: una vendetta di Kadyvor per quello che lei aveva scritto e continuava a scrivere su di lui, o l’azione di chi voleva addossare al premier ceceno l’omicidio per impedirgli di arrivare alla presidenza cecena” leggiamo dal sito del bisettimanale. Kadivor è un uomo che, sostenuto dal governo Putin, si assicurava l’obbedienza popolare attraverso la violenza delle sue “squadre della morte”, come le aveva più volte definite la Politkovskaya nei suoi articoli. Secondo alcune indiscrezioni anche l’ultimo lavoro della giornalista avrebbe riguardato i casi di tortura in Cecenia pilotati dallo stesso Kadirov, le parole che si sentono nel video che la giornalista avrebbe pubblicato chiariscono l’oggetto di un inchiesta scomoda. La Novaya Gazeta ha pubblicato un estratto del dialogo tradotto dal dialetto ceceno: Prima voce: "Putin ha detto 'guardate da tutte le parti'..."
Seconda voce: "Ragiona ancora! Questo p... non vuole morire, è ancora cosciente, nulla lo ucciderà... Guardate come è bello. Soffro se non ti vedo".
Terza voce: "Respira, fratello! Respira, per carità. Ti dico...".
Prima voce: "Questo è andato?"
Seconda voce: "Sì, è andato".
Prima voce: "Allora andiamo via, venite qui".
Terza voce: "Prendete... Mettetevi in posizione, tenete d'occhio la zona".
Da più parti si sollecita un inchiesta, la chiede il dipartimento di Stato Americano ricordando i dodici giornalisti ucciso negli ultimi sei anni, la chiede l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa che assegnò nel 2003 un premio alla cronista russa per la campagna in difesa dei diritti umani in Cecenia, la chiede anche l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbachev sottolineando come tale assassinio sia un crimine contro la democrazia.
Mentre l’Europa assume una posizione più morbida, attraverso il presidente finlandese, esprimendo rammarico per l’efferato assassinio della giornalista. La reazione chiara del governo Russo è venuta due giorni dopo, quando Putin ha rotto il silenzio nei confronti della vicenda esprimendo la ferma volontà del Cremino di avviare un inchiesta nei confronti degli assassini di Anna. Putin, in un intervista a Daniel Broessler, ha affermato, oltre ad alcune frasi di circostanza, che tale assassinio costituisce in primo luogo un danno all’immagine della Russia come Stato democratico, ed in secondo luogo lo scarso peso politico della Politkovskaya tale da non giustificare una reazione tanto dura da parte di Kadyrov. Ed in realtà, vedendo la vicenda da un punto di vista d’immagine, la morte della giornalista ha fatto puntare l’obiettivo sulla situazione della stampa russa (al 140mo posto per libertà di stampa) molto più di ogni articolo o foto sulla situazione cecena, c’è da pensare o che chi ha organizzato l’omicidio non abbia pensato ai risvolti d’immagine o che li abbia calcolati preventivamente (esattamente come ha osservato la redazione del giornale).
La stessa redazione sta organizzando un inchiesta indipendente per scoprire i mandati e gli esecutori, mentre gli azionisti per periodico per cui lavorava hanno offerto una ricompensa di oltre 700 mila euro per chi aiuterà a fare luce.
Massimiliano Matarazzo

Ripeterete fisicamente la nota scena della scalinata di Odessa tutti i Sabato pomeriggio fino all’età pensionabile… i limiti della città Potemkin!

- Si dice che se si prende un pentolino con dell’acqua dentro e ci si mette una rana viva e vegeta, e se si fa in modo che la temperatura dell’acqua si alzi solo di mezzo grado ogni ora, pare che si veda la rana non dare grossolani segni di insofferenza (forse più per le ristrettezze del luogo in cui è costretta!!!), ovvero che si abitui tranquillamente alla temperatura via via sempre più torrida ma che dopo qualche ora, ci possa trovare con una bella rana lessa!
Non vorrei usare questo noto esempio per fare la più frequente similitudine tra questo sistema di adattamento naturale e l’aumento della temperatura climatica sulla nostra Terra, esempio ben più clamoroso usato spesso da preoccupati e preoccupanti ambientalisti, ma vorrei farlo mio più in generale per metterlo a confronto con il più complicato sistema di interazioni sociali al quale noi “cittadini del mondo moderno” siamo abituati da un po’ ormai, o al quale gradualmente ci stiamo di certo abituando. Questo tema è pressoché un filo diretto con una domanda un po’ strana, estrema direi, che suona più o meno così: “è meglio odiare o restare del tutto indifferenti?!”.
Penso a quello che ci succede oggi: ogni giorno, magari attraversando la città, ci lasciamo alle spalle situazioni che solo al pensiero ci potrebbero far imbestialire per mesi interi, magari una macchina che apre lo sportello senza pensare al motorino che sopraggiunge, magari vedere ferma in doppia fila una macchina parcheggiata con non curanza su di una strada sempre scorrevole, o magari ancora, una persona costretta a suonare il clacson della propria auto insistentemente perché qualcun altro ha lasciato la macchina in seconda fila in modo da non fare uscire nessun altro dal parcheggio che le sta dietro. Tutte scene cui siamo abituati a vedere forse anche tutti i giorni, e che il più delle volte, praticamente sempre, vediamo risolversi nei vari casi in una schivata dello sportello da parte del motorino con il seguirsi silenzioso o a mezze parole gridato da lontano di un “Ma che sei matto!?!”; in un’imprecazione continua all’interno dell’auto in coda per il ristringimene della corsia a causa della macchina in seconda fila; o per finire ad un “oh, mi scusi, non l’ho sentita, ero proprio qui al bar per delle informazioni!” ed un tacito acconsento da parte del mal capitato.
Non voglio parlare in questo senso di questa situazione sia chiaro, che non può che concludersi tra noi con : “ma che ci vuoi fare, Roma è grande, confusionaria, i parcheggi non ci sono e la gente non può in mezzo a tutto questo stare sempre attenta a tutto. Capita che ci si distragga!”
E a chi non può capitare…
E se le piazzassimo su questioni politiche quali sono, risulterebbero sterili lamentele fini a se stesse… non siamo del campo, non stiamo noi in politica!
Il succo del discorso è un altro: noi così come la rana abbiamo deciso, consciamente o inconsciamente, di eliminare quasi del tutto come nostro problema l’aumento dell’indifferenza verso situazioni che, potenzialmente sarebbero pericolose, e comunque nocive per il nostro benestare (per quella che è la nostra integrità a qualsiasi livello la si veda). Se il problema non fosse che quando la situazione ci tocca, noi stessi, in maniera reale, primo non sappiamo più come comportarci nei limiti della civiltà scoprendoci o incapaci di reagire in qualsiasi modo o addirittura fin troppo aggressivi verso l’altro, secondo ci accorgiamo improvvisamente quanto impotenti siamo diventati (comunque noi reagiamo) di fronte un meccanismo così perverso di indifferenza nei confronti dell’altro, che non riusciamo più lontanamente a fermare o a sconvolgere senza passare per pazzi, con il quale dobbiamo anzi necessariamente convivere, se non fosse per questo insomma non sarebbe certo neanche un nostro problema…
Così noi passiamo le giornate a fare più o meno finta di non sentire il peso di situazioni che poi a volte aumentando di intensità ci crollano addosso in tutta la loro gravità.
Abbiamo visto mille volte la disattenzione tra i lavoratori trasformarsi in incidenti, l’incuranza verso le altre persone generare diffidenza e menefreghismo se non spesso il dilagare sottaciuto della delinquenza. Insomma si viene clamorosamente a notare come una grande città diventi sempre più insopportabile, o come noi la riteniamo sempre più di situazioni insostenibili, che poi è lo stesso, non a misura d’uomo dunque.
È naturale, è proprio una questione logica si potrebbe dire, che questo accada: una città si ingrandisce, diventa più comoda e ricca, poi ancora più numerosa (cioè più caotica), e questo perché con gli stessi mezzi deve soddisfare più persone, le quali poi col tempo diventano invece sempre più insoddisfatte (forse in ricordo dei tempi migliori chissà), perché gia comode tra concittadini scomodi che in fondo neppure si conoscono. Certo piano piano i mezzi aumentano facendo così aumentare nuovamente ricchezze, benessere, ma difficilmente anche il buon umore… dunque altra gente ancora, più ricca e più insoddisfatta forse.
Così se già Platone pensava ad una grandezza massima per l’equilibrio delle su città ideali, e se Benjamin più di duemila anni dopo, ancora parlava dell’inadeguatezza delle metropoli di fine Novecento e la disumanità delle stesse, vuol dire che in questa sede ci si può fermare anche un momento a pensare se la situazione e la qualità della vita dell’uomo sia effettivamente migliore nelle braccia del vortice metropolitano.
Spesso mi sorge il dubbio, ma tutte le ricchezze che mi propone la città riescono a soddisfarmi più di quelle frustrazioni che l’indifferenza, l’asocialità, l’innaturalezza di molti comportamenti, lasciano in me come ricordo a fine giornata? Insomma facendo due calcoli e mettendo sulla bilancia, tutti i miei sabati sera in giro per Roma, tutti i saluti sfuggenti all’università, tutti i malcostumi e le indecenze alle quali non si può far altro che tacere per impotenza di cambiarle, trovo lì maggiori soddisfazioni di pomeriggi tutti uguali di piccole città o paesi di provincia, di giorni passati a parlare al bar con persone che conosci a memoria perché compaesani da una vita, di passeggiate all’aria aperta senza esser spintonati e senza inseguire il proprio compagno di chiacchiere tra la folla? Insomma di giorni in una pace fin troppo nota?
La differenza credo però, non debba essere ricercata solo tra provincia e città, tra campagna e metropoli, ma piuttosto tra stili di vita viziati dalla moda del momento o vincolati da perverse logiche e deviazioni sociali, e sensazioni naturali verso gente che si conosce e si riconosce come persona diversa da se, da odiare al limite, ma sicuramente non da schivare come qualcosa di estraneo alla mia vita, alla mia natura quasi, che interrompe quel bel progetto di vita che cerco di inseguire non curante il più delle volte delle altre vite come la mia e delle situazioni che vengo a creare o dalle quali sono circondato… ma allora che tipo di vita vado cercando e vado a trovare alla fine nella metropoli, bisognerebbe chiedersi! La metropoli è per la folla.
Il problema metropolitano in questo senso allora, cede il passo ad un problema un bel po’ più profondo di quello che abbiamo potuto affrontare in così poco spazio, quello cioè della conoscenza del mondo che si ha attorno, fondamento e fondamentale per la nostra integrità fisica, psichica e morale, un mondo quello metropolitano che appare quasi menomato, che pare si cerchi di non stimolare più alla ricerca di più proficui scambi celebrali, come invece succede in natura e in una socialità umana corretta e più equilibrata, ma anzi sembra che nella metropoli l’uomo gia saturo di stimoli per lo più confusi e neanche troppo utili, decide forse anche consapevolmente di appiattirli ad un unico significato superfluo: l’indifferenza. Niente è più lasciato alla scoperta. Rimane il lavoro ahimè troppo standardizzato.
Pochi sono gli stimoli veramente significativi per quest’uomo… e come avviene per i bambini e neanche per gli animali in natura, vengono ridotti ad unico fine, quello per la sopravvivenza di se e dell’immediato futuro che lo concerne.
Neanche l’uomo primitivo aveva visioni tanto limitate!
Massimiliano Matarazzo

Le fantasie infranta tra i sogni…

Sento dire spesso che i films con oggetto le trame di libri famosi uccidono puntualmente la fantasia che il testo stesso aveva fatto crescere nell’animo di chi li legge.
Da “Il nome della rosa” a “il Codice Da Vinci” i protagonisti che erano stati immaginati in una certa qual maniera grazie all’abilità e le doti descrittive di un autore, venivano puntualmente trasfigurati dall’esigenza cinematografica di trovare un volto reale a quelle fantasie.
Ma che colpe si possono attribuire ai lineamenti di uno Sean Connery o di un Tom Hanks che hanno avuto solo la sfortuna di essere stati scelti per l’ottima capacità di recitazione e di interpretazione, dal regista che li voleva soggetti e protagonisti del personaggio?
Indubbiamente è da scagliare una freccia in favore di questa “indecorosa” scelta!
Pensate a cosa ne sarebbe stato di Alice de “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie” di quel Carroll se la Walt Disney con i suoi disegnatori non l’avesse resa immortale nella fantasia di milioni di bambini…!
Pensate a cosa sarebbe stato della fantasia dei bambini senza mai avere visto Goldrake, Lupin III o chi sa quale altro cartone animato!
Chi sa poi se la così forte oggettivizzazione in video delle cose fantastiche ed impossibili per l’uomo possano averlo aiutato a diventare più recettivo nei confronti delle verità scientifiche che non verso quelle magico-religiose, questo sarebbe interessante scoprirlo.
Comunque sia, che le favole hanno di bello che fanno sognare tutti, a tutte le età si leggano o si guardino, questo è certamente fuori discussione!
E se poi sono ben concepite ed adattabili alle esigenze di un disegnatore, della scena e dello schermo più in generale, io credo che sia solo un bene che si voglia e si riesca a riprodurle… a realizzarle.
Un “produttore”, o forse in questo caso sarebbe meglio chiamarlo un “riduttore” di favole su pellicola che grazie alla sua abilità è certo degno di nota è un regista giapponese a noi contemporaneo che racconta la meraviglia di favole del suo Paese grazie ai lungometraggi animati: Hayao Miyazaki.
Non occorre un critico cinematografico per accorgersi della potenza dei suoi films, dei suoi racconti e della maniera in cui sono articolati.
È semplicemente un piacere infatti entrare, grazie alle sue realizzazioni in quelle atmosfere, in quella cultura ed avvicinarsi a quel tipo di mentalità che è quella del suo popolo orientale, così lontano dalle nostre abitudini e dai nostri modi di vedere il mondo.
Avere l’occasione di guardare una qualsiasi delle sue grandi opere (se si pensa che per il suo “La città incantata” ha ricevuto nel 2001 l’Oscar) è come toccare nel profondo il tasto che accende la fantasia e la voglia di farlo.
È come tuffarsi tra le magie di Dei a noi sconosciuti ma non incomprensibili, tra le leggende che hanno quel sottile modo di avvicinarti alle loro fantastiche verità.
Magie e fantasie che non si spengono quando vengono realizzate (nella pienezza in cui si può usare questo termine) nella pellicola cinematografica, ma anzi restano favole e fantasie che danno vita alla meravigliosa voglia di viaggiare senza freni ed ostacoli che abbiamo in quello spazio e tra quei confini tutti nostri che stanno nella nostra mente.
Notiamo certo più l’impossibilità di quelle storie che non la loro possibile realtà, ma forse proprio per questo siamo molto più attenti, che non per le storie normali che ci vengono narrate, a coglierne quei piccoli segreti che si rivelano tesori infiniti.
Riusciamo a coglierne sempre delle verità spiazzanti, che ci lasciano spesso il desiderio di capire e di imparare, e comunque sempre più quello di avere qualcosa in più per sognare. Qualcosa in più per non razionalizzare ogni cosa che ci viene incontro.
Uno splendido modo per riaccarezzarsi bambini!
Alex Tessarolo


UN INDIANO SULLE TRACCE DI SPIELBERG

L'estate è per antonomasia la stagione in cui il cinema va in letargo. Tutti i film di genere scartati durante l'anno, perchè non in grado di partecipare alla sfida del botteghino, si affacciano timidi, senza pretese, contenti di trovare finalmente sale disposte ad ospitarli. Ad accompagnare questa flotta di piccoli horror e innocue commediole, vengono arruolate alcune megaproduzioni che sono risultate deboli negli incassi negli Stati Uniti, e cercano di rifarsi, sfruttando la penuria dell'offerta estiva (vedi il caso Superman, catastrofico ritorno del più anticinematorgafico eroe dei fumetti).
Molte case di produzione, e ancor più di distribuzione, si rendono conto di questo spazio vuoto da riempire, ovvero l'estate cinematografica. Vera chimera per tutti i non vacanzieri. E iniziano a rendersi conto di dover pur dare qualche ossicino in più da pappare a questi sdentati cani che abbaiano fra le fila della società. Vista la sovrabbondanza di finti autori che passeggiano per i set americani, è meglio rendersi conto sulla pelle del pubblico estivo, ormai incapace di criticare o lamentare alcun torto subito, le loro effettive capacità. Ad esempio tale sorte è toccata questo fino estate, inizio Settembre (data che è sempre da assegnare all'estate) a M. Night Shyamalan, enfant prodige indoamericano, che ha scal(ci)ato il successo con il primo film (nel 1999, "Il sesto senso") ed è poi sprofondato nel limbo dell'anonimato, trascinatoci più dalla critica avversa, che da una reale incapacità.
Shyamalan è tutto sommato un regista di tutto rispetto, (pensate che ha pure rinunciato a professare medicina, con grande dispiacere della famiglia). Sfrutta all'estremo le piccole idee che gli sguazzano in testa, e ci costruisce dei discreti film del mistero, che però finiscono sempre per cozzare contro la sua ambizione di nuovo Spielberg; esagera nel favoleggiare, esagera nei toni medi dei personaggi, esagera nella concitata tensione verso un finale altamente imprevedibile o imprevisto, esagera nella passione per gli alieni. La migliore delle sue caratteristiche è sicuramente la capacità di scegliere soggetti in grado di creare sin dai titoli un ampio immaginario visivo, che si estende ben oltre i margini dello schermo, e arriva fino a scavare nei nostri incubi più remoti. In "Unbreakable" ci ha raccontato la storia di un uomo indistruttibile messo al confronto di uno iperdistruttibile, per "Signs" ha affrontato la tematica dei cerchi nel grano, con "The village" ci ha portato in un villaggio isolato della Pennsylvania del diciannovesimo secolo, separato dal resto del mondo da mostri invisibili o incredibili. Tutte trame che invitano lo spettatore, a prescindere dall'effettiva resa filmica. Misteri che abitano la mente di chiunque, che sono già emersi in superficie. Shyamalan dà dimostrazione di un'ottima conoscenza dei mezzi di comunicazione procinematografici. In questo momento ci accorgiamo di alcuni punti di contatto fra l'indiano e l'americano (Spielberg), Bollywood e Hollywood, mistero e fantascienza si specchiano come fossero la stessa cosa, ma le imperfezioni li rendono solo simili. L'uomo medio, medio non mediocremente, ma medio socialmente, è il bersaglio del cinema di Shyamalan, bersaglio da centrare al cuore con la magia delle favole, le fantasie adolescenziali e gli incubi infantili, un bersaglio da lasciar sprofondare nell'immedesimazione più buia, senza via di scampo. La tecnica al servizio del racconto. La meraviglia al servizio del gusto. L'idiosincrasia del male al servizio del bene. La pubblicità al servizio del salvadanaio. La narrazione al servizio dell'ipnosi collettiva. Sull'onda di Spielberg, che ha sempre voluto raccontarci tutto come se fossimo bambini impauriti e affascinati da un mondo sconosciuto, spaventoso ma buono; Shyamalan vuole raccontarci tutto come se fossimo degli adolescenti fanatici, dei bambini cresciutelli e un po' più smaliziati, pronti a riconoscere che c'è molto più male che bene intorno a noi, ma disposti ad accettare solo quest'ultimo, succubi degli infiniti misteri del mondo, con il rifiuto di crescere che è solo un'ipotesi fra mille, ma potrebbe essere quella giusta, e la voglia di ribellione che è tanta, ma il microcosmo personale impedisce di guardare oltre il proprio naso.
Ebbene dopo qualche semiflop, "Notte" Shyalaman ci piomba nel vuoto di fine estate come una bomba H, con il suo nuovo film: "Lady in the water". E il gioco è sempre quello. Storia misteriosa, nella pubblicità solo un vago accenno a quella vastità di creature che potrebbero popolare il film, e a quella enormità di immagini che potrebbro scorrerci dinanzi agli occhi. Una ninfa Narf, protagonista di una favola per bambini di origine orientale, è cascata sulla terra per portare un messaggio di pace e speranza, e qualche brutta bestiaccia vuole impedirle di tornare a casa. Ad aiutarla la solita pletora di comuni mortali, tanto comuni da non sembrare nemmeno tanto mortali.
La scelta degli attori è molto Spielberghiana, Shyamalan decide di abbandonare le star (ha lavorato con Bruce Willis e Mel Gibson) e rendere il tutto più umano. Abbiamo Paul Giamatti, vero simbolo del nulla più vacuo, un Richard Dreyfuss alla decima potenza, nei panni del protagonista comune mortale, e la figlia di Ron Howard (che credo abbia venduto l'anima al diavolo in cambio di posti di lavoro al cinema per tutta la famiglia), Bryce Dallas Howard che interpreta la ninfa prescelta. Ragazza priva di sex appeal, della porta accanto, ma non quella alla quale speri di andare a bussare. In una parte meno importante recita proprio l'autore del film, che finora si è riservato un cammeo alla Hitchcock per ogni pellicola girata, e in questo film si pone, metanarrativamente e forse ironicamente, a salvatore di generazioni future. L'ambientazione è una sola per tutto il film, come già accaduto in Signs e The village, ed è un condominio di Philadelphia. Questa monolocalizzazione, facilita il senso di appartenenza alla storia, e la catalogazione e identificazione delle tracce della nostra fantasia sommerse nel racconto, che possono affiorare tramite i tanti abitanti della scena. La microcomunità abita lo spazio cinematografico dove sconfinano le creature del meraviglioso, è in questo atto di congiunzione, in questo fatidico miscuglio, che Night affronta direttamente il maestro Spielberg. Al contrario che nei precedenti film, questa volta Shyamalan si prende le responsabilità di creare uno spesso tessuto metacinematografico, metanarrativo, da sovrapporre alla normale strutturazione delle sue trame del mistero. Così la ninfa prende il nome di Story, motore della fiaba, ed elemento imprescendibile del racconto. Un critico cinematografico passeggia per il condominio amareggiato dalla noiosa vita passata davanti a filmacci, disilluso, civettuolo e antipatico si guadagna la morte, e ci affranca dell'eliminazione della negatività, quasi incarnando il vero nemico del film, il nemico di noi umani, o di loro cineasti, belva divoratrice ben più cattiva delle creature misteriose. La comunità inoperosa, bolla chiusa di spazio che ammazza il tempo, microcosmo di periferia che si lascia vivere mentre qualcun'altro decide la sua sorte (come anche in Manderlay di Von trier, dove già recitava Bryce Dallas Howard), è l'ovvia rappresentanza di un pubblico, di un mondo che non è più in grado di neutralizzare i propri nemici, senza anticorpi validi, non è più nemmeno in grado di credere alle fiabe.
Al contrario di Spielberg, Shyamalan, sembra non avere fiducia in un improbabile risveglio della gente sulla terra, la sua favola è sarcastica ed amara; la ninfa non porta luce con sè nell'oscurità delle vite silenziose, l'estraneo non è più fonte di intraprendenza e conoscenza, ma è solo un vagabondo mendicante aiuto: c'è che gli da due centesimi, chi un euro, e chi lo manda a quel paese.
Il film non vive di troppi momenti morti, si immerge subito nel mondo parallelo della fantasia attraverso un incipit inneggiante alla natura e all'acqua (elemento che già risultava emblema della vita in Unbreakable). Paul Giamatti, il protagonista, bersagliato dalla sfortuna, ridotto alla balbuzie e alla portineria, ex medico (guarda caso), incapace di trovare fede in niente dopo la morte di moglie e figli; prescelto come Guaritore della fiaba, si arrovella in tutti modi alla ricerca di una spiegazione, o soluzione, al mistero, e con l'aiuto degli abitanti cinesi del condominio, conoscitori dell'originale fiaba orientale, trova il modo di proteggere il ritorno alla terra madre della ninfa; il tutto fra qualche scossone horror e qualche fugace, quasi fulminea, nenia romantica. Interessante notare come fra gli inquilini del condominio non vi siano famiglie complete, o manca il marito, o la moglie, o entrambi, la solitudine pesa come un macigno nelle vite degli uomini comuni, e la magia della Ninfa spreme solo un po' di limone all'interno di una vodka liscia senza ghiaccio. Il tutto con un grosso balzo dell'immaginazione potrebbe anche portarci a vedere nella storia una metafora di una trincea in battaglia, che tenta di spedire un messaggero di pace alle forze nemiche attraverso un campo minato, senza speranza di risposta, ma irreprensibile nel proprio sforzo umanitario. Situazione che fa crescere il morale della truppa, ne migliora l'affiatamento, e che toglie un po' di amaro alla sconfitta certa.
Alex Tessarolo
TV GENERATION


Negli anni 70 Berlusconi possiede un piccolo impero di imprese. Il suo business per eccellenza è la tv: a Milano 2 crea la sua prima tv via cavo, Telemilano, che dal 1974 inizia a trasmettere come «tv condominiale»; nel 1979 costruisce un circuito televisivo nazionale, che sarà alimentato da Publitalia 80, la concessionaria che raccoglie pubblicità. Negli anni Ottanta, dopo aver lanciato Canale 5, la Fininvest di Berlusconi acquista Retequattro dalla Mondadori e Italia 1 dalla Rusconi. In mancanza di leggi sulle tv e grazie agli appoggi politici, Berlusconi cresce fino a insidiare il monopolio Rai. Nell’ottobre 1984 le tre reti Fininvest sono oscurate dai pretori di Roma, Torino e Pescara per avere illegittimamente trasmesso su tutto il territorio nazionale. Quattro giorni dopo Bettino Craxi, amico di Berlusconi e presidente del Consiglio, vara un decreto legge (che passerà alla storia come «decreto Berlusconi») che consentirà alla Fininvest, in assenza di una legge sulle emittenze, di riprendere le trasmissioni su tutta Italia. Chiunque nasca dopo o durante queste date è iscrivibile, volente o nolente, nella facilmente apostrofabile "tv generation", e non tanto perchè si vuole fare di essi teledipendenti, ma perchè tutti costoro, (me incluso), non hanno vissuto un giorno senza finivest (attualmente Mediaset). UN GIORNO SENZA FINIVEST (frase da leggere ad alta voce, sperando che il signore o babbo natale, siano pronti ad esaudire il nostro desiderio). Io, un giorno senza finivest, senza Gerri Scotti, Maurizio Costanzo o Mike Bongiorno, Pippo Baudo o ancor più Paolo Bonolis, non lo ho mai vissuto, benchè sia riuscito a passare anche intere settimane senza accendere la televisione. Un giorno senza Striscia la notizia, o Emilio Fede, per noi, nati negli anni 80, è pura utopia; forse la prima parola imparata da molti coetanei è stata "Allegria", pronunciata con collegamento via cavo di alimentazione dell'istinto suicida, o omicida; nel caso la si voglia pronunciare a tavola con i genitori, forse meglio limitarsi a un solido e sempiterno vaffanculo (questo sì potrebbe essere un vacobolo da famiglia). Purtroppo, viviamo in un paese, dove l'educazione è fortemente condizionata da questi personaggi, subliminale costume societario, che infanga da anni la reputazione della nostra penisola, e mette in serio pericolo il nostro futuro. Non voglio cercare di allarmare i più anziani. Nessuna forma di attacco batteriologico è stata inoltrata nella madre Italia, ma il lavaggio del cervello è ormai quotidiano, frequente quanto quello delle mani. Io non riesco ad immaginare cosa potesse essere il mondo prima, senza Ezio Greggio e Iva Zanicchi, forse avrei trovato lo stesso una ragione per esistere, ma sono sicuro che avrei sofferto le pene dell'inferno al momento del loro sbarco sulla terra, della loro irruzione nel mio cunicol(o)appartamento. E pensare che prima di Finivest, la tv non aveva una programmazione continua, non durava tutto il giorno, andava a dormire come un essere umano, stanco, umile, comprensivo; bandiva le parolacce e le volgarità, come un genitore, come un docente, come una società per bene; bandiva i culi e le procherie a tutte le ore, come esigenza morale di paese cattolico impone, a torto o ragione; si impegnava ad insegnare ai più piccoli e intrattenere i più grandi. Pensare che le pubblicità erano relegate al Carosello, programma a sè, contenitore di informazione, al pari di un telegiornale, leggero e divertente, ammiccante, ma lontano dall' odierno ossessionante. Negli anni sessanta addirittura la RAI aveva un canale specializzato in teatro e uno in cinema; manco fosse Sky. Una statistica impressionante ci fa notare che in Italia esistono 640 canali televisivi sui 2.500 presenti nel mondo; un quinto delle tv mondiali. Se questo non è un record, può essere un grande merito, una grande anomalia, un grande mistero, oppure più probabilmente un grande senso di angoscia; IL TERRORE CORRE SUL FILO, o tramite il filo, o tramite il tubo, o l'occhio diventa catodico esso stesso, presentandosi sotto forma di spot, o stop, o censura, o accetta, o pellicola, fragile, ma riutilizzata con continuità spasmodica. LA TV ITALIANA TRASMETTE UN MILIONE DI SPOT L'ANNO. O mamma mia! Ma io come faccio a non vederne o sentirne o percepirne nemmeno uno. Impossibile. Almeno uno mi beccherà, forse mentre sono in bagno, sarà la tv del vicino, più alta del solito, che mi consiglia la tavoletta per i problemi di stitichezza, o quando accenderò i fornelli, sarà la tv del vicino, che minacciosamente mi invita a cambiare condimento per la pasta, perchè aglio e olio non sono assolutamente più di moda. Per evitare invadenze eccessive, o invasioni barbariche, meglio comprarsene una di tv e scegliere per conto proprio, o alzare il volume della radio a cannone, e sentirsi bussare alla porta qualcuno che non sente più la sua tv e ci chiede misercordia. Pietà. Per queste cose non possiamo certo dare la colpa a Berlusconi, che ha semplicemente parlato al cuore degli italiani. Forse a Craxi che glielo ha permesso, soprattutto ai nostri concittadini che sono scesi in piazza, in quei maledetti giorni dell'84, e hanno gridato "A ridatece i Puffi, che se no mio figlio che cazzo fa?", certo i Puffi sono meglio dei compiti; ma per un bambino i modi di divertirsi sono cento milioni, forse sono proprio quei genitori ipocriti, che avrebbero voluto gridare "Non togliete i culi dalla tv, culi e tette, culi e tette; fino alla fine dei miei giorni, un solo grido ci deve unire, culi e tette per tutti." E' quasi entusiasmante immaginare la casalinga del terzo piano, scendere in piazza, e gridare "Più Iva per tutti", senza rendersi conto di rischiare in modo così grossolano lo stipendio. In somma, in bene o in male, la vita di tutti i giorni degli italiani, quel fatidico anno cambiò, un'inversione a U, che tuttora nelle viscere di alcuni muove tumulti e sprigiona conati di vomito. Ma la democrazia è strumento di maggioranza. In fin dei conti si può giustamente considerare il fatto che la concorrenza sia il sale della vita, il motore della società, intesa nella sua modernità, sia l'essenza della convivenza, lo specchio del valore umano. La concorrenza è essenziale per la vita e per il mercato. Mercato che è anche televisione. Purtroppo la concorrenza spesso si tramuta in sfida, battaglia che necessita vincitori e vinti. Per la televisione l'auditel si fa arbitro di tale sfida, e ne determina le scelte. La concorrenza si fa imitazione. Indagine sui concorrenti, e non più sugli utenti, la società passa in secondo piano, rispetto alla microcomunità che si muove all'interno dello schermo. La televisione si fa sempre più autoreferenziale, procede verso una morte infinita, una chiusura in sè stessa, che porterà allo spegnimento della luce. Ormai quello televisivo è un mondo che trascende il tappeto di antenne sul quale viaggia, e si impone nella conversazione da bar, e nella lettura del giornale; si macchia di inchiostro e inquina l'aria. La televisione pretende sempre più di essere realtà e intrattenimento, ma non vi è più muro che separi nettamente i due campi, forse solo un semplice velo di Maya che confonde l'una e l'altra, miscelando due mondi distinti quanto l'inferno e il paradiso, e creando un purgatorio di anime in pena che, naufrago, vagabonda senza scampo. Sia esso popolato di spettatori o attori. Sembra quasi che noi, figli illegittimi degli anni '80, siamo stati scelti come cavie di un esperimento da laboratorio mortificante e urticante. Nel bel mezzo del Mediterraneo degli scenziati della comunicazione hanno deciso di testare l'impatto didattico di benestanti cocainomani che sbraitano e scalpitano, che si umiliano e si picchiano, umiliandoci e picchiandoci, nel processo di imitazione e immedesimazione innescato dalla cinepresa. Noi siamo la tv generation, e non potrebbe essere altrimenti, essendo i nuovi giovani la web generation, o mtv generation; noi, vecchi giovani, ci guardiamo alle spalle, e ci rendiamo conto di essere stati pedine di un partita a scacchi fra sistemi di potere che si sono combattuti mietendo un ampio numero di vittime sul campo di battaglia. Oggi le televisioni italiane stanno implodendo, sotto i colpi delle proprie stronzate, e fanno baccano, per farsi sentire il più lontano possibile, con Blob, programma dall'effetto boomerang, che riassume giornate e settimane, tramite situazioni deprimenti e intolleranti, e mantiene in vita un mito, ormai caduto in profondità abissali. Per fortuna si sta diffondendo la tv satellitare. Ma il processo di degradazione di una società piena di gente di talento, trova fra gli imputati più rei la televisione degli ultimi vent'anni. E' questo è un fenomeno che va analizzato in profondità.
Alex Tessarolo

LE CITTA' DELL'ELETTRONICA

DETROIT E LA TECHNO


"Definire la musica è improbabile, descriverla è faticoso, analizzarla spesso non è sufficiente, vivisezionarla è essenziale".

Geolocalizzare la musica. Glocalizzazione come fondamento o reazione della/alla globalizzazione? La musica elettronica nel ventunesimo secolo sta diventando la nuova musica popolare, con il computer che ormai si presta a freddo sostituto della chitarra; presente in tutte le case, invita i giovani ad affrontarne i rumori, a sgrovigliarne gli incastri sonori, a stagliuzzare, avvelocizzare, imbrigliare, ripetere, ripetere e ripetere, comprimere... rarefare.
Economico, efficiente, preciso, multifunzionale. Che chiedere di più? Soprattutto globale, perchè ovunque nel mondo e a quasi ogni livello sociale, e perchè strumento di connessione al web, ovvero al resto del globo. Innanzitutto locale, perchè elettrodomestico.
Nell'ascoltare la musica elettronica l'elemento che spesso aiuta a contraddistinguerne le maggiori affinità con un genere piuttosto che con un altro è la località di provenienza di tale musica.
La Germania è ovviamente una delle terre madri dell'elettronica, essendo tedeschi i Kraftwerk, i fondatori del genere. Berlino è oggi considerata la capitale della musica elettronica, fatto dovuto soprattutto alla grande quantità di club presenti, e all'ottima qualità dei dj presenti, con un'etichetta nazionale come la Kompakt che fa da chioccia a tutte le altre labels che crescono come funghi in ogni villaggetto della "Krautonia".
Per quanto riguarda invece la distinzione in generi della musica elettronica non si può prendere ad esempio una nazione, ma bisogna andare a scovare più a fondo nei meandri di città che divengono nuclei incandescenti, appena trovano al loro interno una comunità che ne coglie il suono.
L'urbe, la metropoli, è terra madre dell'elettronica. La città, con la sua velocità e il suo rumore innato, è la vera radice dell'elettronica. E ogni città ha un suono tutto suo. Il talento del musicista elettronico sta nel fiutarlo e farlo proprio, proporlo e renderlo accetto anche alle altre città. Preparare un disco come se fosse una cartolina con i monumenti e le piazze da mandare al resto del mondo. Un po' come il riverbero del mare che fuoriesce da certe conchiglie. Presentarsi come i nuovi bardi che attraversano i villaggi raccontando le gesta e le leggende della propria patria.
Il tentativo che mi propongo e vi propongo è di trovare l'alchimia che rende magica certa musica elettronica, e raccontarvi chi sono i maghi che dominano le città più importanti nel panorama dell'elettronica degli ultimi vent'anni.

Per iniziare questo viaggio intorno al mondo scelgo di partire da Detroit, in quanto il nome della città è inscindibile dalla parola techno.
La Techno di Detroit è un fatto a sè rispetto a tutti gli altri stili di techno. E' a Detroit che ha inizio il primo vero lascito elettronico di stampo comunitario e provincialista. Detroit, città della Ford, Est degli stati uniti, limbo musicale con gli occhi rivolti a New York, e l'orecchio rivolto a Chicago, ma con il cuore pulsante nei sobborghi connessi alla malfamata Eight mile, punto di divisione fra ricchi e poveri e punto di partenza di una comunità di ragazzi di colore come Juan Atkins, Kevin Saunderson, Eddie Fowlkes e Derrick May; coloro i quali sono quasi uninanimamente considerati i padri fondatori della techno, di un suono che andremo a vivisezionare nelle prossime righe.
E' molto importante soffermarsi su tre peculiarità di Detroit: prima di tutto, come già detto, è qui che ha sede la Ford (come anche la General Motors e la Chrysler), una delle più grosse icone dell'america industrializzata, una delle più grosse icone del RUMORE, della tecnologia, del consumo e dell'indipendenza. Soprattutto uno dei più grossi simboli di dipendenza, dipendenza dal lavoro, dipendenza dalla ditta e dal salario, vita di gruppo, vita di sindacato, vita di ribellione che marcisce dentro, nell'avvitare i bulloni, nel meccanizzare, nel saldare, che facilmente si tramuta in suonare, nel ribellarsi, nel protestare che spesso diventa cantare, o ancor meglio e più funzionale per l'elettronica, diventa comunicare con intensità, concetti diretti, frasi rotonde e muscolari.
Perciò la Ford è uno stimolo sonoro imprescindibile, basti pensare alla Fiat in Italia, a Torino, che di fatto è uno dei luoghi più pregni di elettronica della nostra penisola. La macchina è il nido della musica elettronica. E' il trasporto veloce delle emozioni. E' il traffico condensato, è il frastuono congeniale e artefatto, imprevedibile, ma inesauribile, così come la fantasia dei nostri prodi cavalieri della techno.
Secondo fatto importante è che a Detroit nel 1959 nasce la Motown records, casa discografica che produrrà nel corso degli anni Stevie wonder, Diana Ross, i Jackson five, Marvin Gaye, tutta musica che porta nuove radiazioni cosmiche all'interno degli amplificatori, che annichilisce il pensiero e avvolge le gambe, il ventre, scatenando le giunture in rapimenti metamorfici del fisico, estrapolato dallo spazio terreno e tramutato in un progenitore dei robots, condizionato dagli impulsi sonori più che da quelli sinaptici. Tant'è che molti musicisti della techno di Detroit andranno via via a trasferire il proprio immaginario in altri cosmi (ad esempio Drexciya, o juan Atkins che userà come psuedonimo CYBOTRON). La scena musicale si presenta molto florida, e la gioventù di colore, figlia degli operai del settore auotmobilistico, trova dei miti musicali dai quali attingere voglia di riuscire e di sperimentare, dai quali ereditare speranza e convinzione nei propri mezzi.
Terzo fatto è la grande aria di ribellione che si è sempre avuta in questa città. Nel 1967 la rivolta "della 12a strada" portò a più di quaranta morti, settemila arresti e 2.000 edifici incendiati, quando una squadra della mobile di Detroit fece un raid all'angolo fra la 12a e Clairmount; gli abitanti del quartiere (quasi tutti afroamericani, costretti qui dopo la demolizione del loro quartiere, "Black bottom", necessaria per la costruzione della "Interstate 75") reagirono e resistettero per cinque giorni, e si arresero solo all'arrivo delle milizie nazionali, addirittura a bordo di carrarmati, nella migliore delle scene poliziesche da cinema americano. Ovviamente simile violenza stimolò i pregiudizi nei confronti della città, soprattutto nei confronti delle minoranze etniche, fra cui predominante quella afroamericana. La presenza dell'industria automobilistica, con i suoi buoni stipendi, numerosi posti di lavoro non qualificati, invitava tanta gente del Sud dell'America a trasferirsi; in particolare gente di colore, ma non solo, tanto che già nel 1943 le tensioni razziali ebbero sfogo in una grandiosa rissa di diecimila partecipanti e trentasei ore, che portò anche in questo caso a più di quaranta morti e settemila arresti. 
La cattiva fama della città condusse ad una fuga generalizzata la gente bianca, che si spostò in altre metropoli, ormai convinta di vivere su un terreno in fiamme. Agli inzi degli anni settanta la maggioranza della città era afroamericana. E nel 1974 Coleman Young fu il primo sindaco nero di una città americana, e portò la gente di colore a governarla per addirittura trent'anni.
Gli uomini di cui parleremo, anch'essi di colore, hanno reso immortale la cultura afro americana nelle lande del Michigan, portando a compimento un processo di emancipazione, mettendo le radici nell'UNDERGROUND, e non immolandosi ad intoccabili viziate star della musica pop. E' qui che risiede la vera cultura di Detroit. Nei computer e nei suoni di Juan Atkins, di Robert Hood, e della undergorund resistance, nella voglia di stabilità, più che di affermazione, di un'intera comunità, trascinata al potere dai synth e dalle idee. Essi hanno mantenuto alto lo spirito della città, facendone proprio il motto più che legittimo "We hope for better things; It shall rise from the ashes"


LE ORIGINI

Come detto i tre protagonisti della scena sono Juan Atkins, Kevin Saunderson e Derrick May, anche detti i "Belleville three", compagni di scuola, compagni di quartiere, e compagni di ascolto; ascolto soprattutto regolato sulle frequenze che trasmettevano il Midnight Funk Association, programma radio condotto da Charles "the electrifying mojo" Johnson, ormai noto come il vero inseminatore di musica elettronica dell'utero di Detroit. Il suo show prevedeva messe in onda di dischi interi senza interruzione, di artisti come Kraftwerk, New Order, Prince, Philip Glass, Giorgio Moroder, Madonna. Molto attivo anche nel promuovere la musica della città. Sarà lui a rendere note tracce di Juan Atkins come "Technicolor" o "Cosmic cars", e ad ospitare i dj della zona e renderli protagonisti di uno scontro di mix nello spazio che il Mojo ribattezzò STAR WARS, con estrema lungimiranza.
Siamo a cavallo degli anni ottanta, e a Chicago un nuovo stile di house music sta cominciando a spopolare, le due scene si aiutano, si incontrano ma non si scontrano, e procedono di pari passo. A Detroit preferiscono però evitare di cimentarsi in pezzi cantati, e concentrano i loro sforzi sullo sviluppo di un suono metallico, "auto-motorio", dove auto sta sia per se stesso che per macchina, arrivando alla quasi totale simbiosi uomo-computer con gli inserti vocali, veri robovocalizzi, messaggi clonati dall'iperspazio e ruminati da mangianastri paralizzati ed esterrefatti. Col passare del tempo gli Stati Uniti si accorgono del movimento e ne iniziano a proporre alcuni brani, che si ergono a bandiera del futuro, a bandiera delle macchine come unico essere in grado di democratizzare l'umano. Il segnale più evidente della ormai giunta notorietà ed essenzialità nel panorama musicale è l'uscita nel 1989 di un disco compilato da Neil Rushton per la Virgin "Techno! New dance sound of Detroit".
Tornando ai nostri tre cavalieri, il loro passo fondamentale fu la formazione nel 1981 del "Deep Space soundworks", collettivo con il quale si decisero a promuovere il loro djing alle feste e nei club della città. May e Atkins si impegnavano stabilmente a creare megamix per i giradischi di Mojo, Kevin Suanderson, il più giovane dei tre, guardava, imparava e aspettava.
Derrick May se ne andò a Chicago per circa un anno, portandosi dietro Saunderson, e scoprendo che Detroit aveva immediato bisogno di clubs, tant'è che ritornato a casa decise insieme ai suoi compari di fondare il "Music Institute", che divenne presto il ritrovo per antonomasia della famiglia musicale di Detroit. A questo punto trovare reclute fu semplice, i primi ad aggregarsi furono Eddie Fowlkes e Blake Baxter. La fondazione cambiò la vita a tutta una generazione (Carl Craig, Jeff Mills, Stacey Pullen) che si preparava ad imbracciare le armi della techno, e proseguire la strada aperta dagli uomini in questione.


JUAN ATKINS

Mi piace immaginare un uomo nero ai confini del tempo e dello spazio. Ode una melodia celestiale, pallida e lunare, provenire da una grotta buia su una landa dimenticata dal sole. Con passo sospettoso ma deciso il giovane uomo di colore si inoltra nella caverna. Il suono sfuma lontano. Accende un cerino. Un branco di pipistrelli esce sfrecciante sbattendo le ali come claps folli e acidi, il passo dell'uomo si fa più pesante, incede come una cassa nel profondo eco delle pareti fredde. Dei lapislazzuli si separano dalle rocce e cadendo danno nuova luce alla sala, dove indifeso, ma illeso, siede un synth i cui tasti bianchi sono abitati da termiti trillanti. L'uomo si rilassa, si scrocchia le dita e si fa tutt'uno con lo strumento musicale. E' in questo momento che Juan Atkins tocca il Santo Graal del cyberspazio, assapora il gusto del sangue di Cristo, e si rende conta che somiglia un tantino al proprio. All'inizio degli anni ottanta, con Star Trek e Star wars come miti indelebili, come saghe di culto, talmente magiche da risultare vere, con il cyberspazio che diventa realtà letteraria e cinematografica, non poteva mancare qualcuno che trasportasse questi spazi in musica; non più fantasiose, edulcorate sonorità psichedeliche, condizionate dall'acido lisergico; l'immaginario galattico necessitava qualcosa di umanamente disumano; aveva bisogno di "Cosimc Cars", di "Cosmic radiance", "Techno city".
Atkins inizia a comporre i primi pezzi insieme a Rick Davis, nel duo ribattezzato CYBOTRON. Il primo contratto lo guadagnano grazie ad "Alleys of your mind", uscito nel 1981 per la propria etichetta (Deep space records), vende 15.000 copie e porta i Cybotron all'attenzione della Fantasy che decide di assumerli.Nel 1982 raggiunge un certo successo con "Clear", abbagliante stella cadente sibilante, con un "one, two, three, four" iniziale, scandito da una voce robotizzata, che è il vero segnale di inizio; scocca l'Atkins time, la scintilla della techno di Detroit è in buone mani; nessuno deve temere di scottarsi. L'influenza di Moroder e Kraftwerk è palese, ma si sente il diverso ambiente di composizione, il viaggio sonoro è direttamente condotto dall'interno di una navicella spaziale, targata Eight Mile. Potrebbe anche essere tutta una fantasia di Gagarin, ma di sicuro non una vecchia versione per commodore 64 di Asteroids.
E' molto importante in questo momento l'aiuto di Rick Davis, che veterano del Vietnam, aveva ben dodici anni in più del nostro uomo. Guarda caso Juan Atkins ricorda la prima volta nello studio di Davis: "I thought i had walked onto a spaceship".
Nel 1985 Juan Atkins si fa una bella etichetta personale, la Metroplex, e decide di uscire come solista, un po' stufo dei viaggi interstellari sullo stesso shuttle di Davis. Si sceglie Model 500 come nuovo moniker ed esce con "No U.F.O.s", portando una visione più ottimista sul futuro, "exactly what Detroit needed at the time". Le frequenze si fanno più spinte sugli alti, il djing si fa più dance, la lava del mantello terrestre ribolle e sgorga, sembra quasi che Juan abbia scovato un'altra porta nella sua casa, che lo conduce in una cantina nel profondo della terra, le stelle sono più lontane, gli ufo non ci sono più, ma la visione è sempre estremamente robotica. Le battaglie, siano esse intergalattiche, mondiali, quotidiane, sotterranee, sono perenni, ovunque, inarrestabili. La rivoluzione bussa sempre due volte.
Con la seconda uscita solista, "Nightdrive", gli abitanti del nucleo incandescente della terra, salgono in superficie, armati di alcune pistole laser, un megafono, una bella macchina, forse una ford, e spargono la voce, la techno è il suono di questa città, questo è il luogo scelto dall'onnipotente, chi esso sia è un mistero, ma lo ha detto, lo ha dichiarato, mi ha spedito un messaggio via fax, Detroit brucia di techno.
Dopo qualche tempo la musica arriva alle orecchie degli europei e le richieste di remix arrivano a valanga nei laboratori di Atkins, che raggranella un po' di fondi e si mette a produrre, a sviluppare il movimento; aiuta l'Underground Resistance, e si crea un nuovo moniker per nuove uscite in Europa: Infiniti, con il quale ci lascia una delle più luminose gemme della sua carriera "Game One"; in Germania incontra Thomas Fehlmann (componente degli Orb) e Moritz von Oswald (componente della Basic Channel), con i quali registra "Jazz is the teacher", è il 1993. Moritz lo prende in simpatia e lo aiuta nelle registrazioni del primo vero album "Deep space", che esce nel 1995, con due pezzi eccezionali come "Starlight" e "The flow", e un suono che si fa più minimale, influenzato dalle gloriose tracce della Basic Channel, con brani che sparano su ogni fronte della techno, quasi un tentativo di dimostrare "that i am the Godfather of techno", cosa vogliono questi tedeschi?
Anche se la lontanza da casa si fa sentire.


GEORGE CLINTON AND KRAFTWERK STUCK IN AN ELEVATOR

Derrick May è un tipo che ama emettere sentenze, fomentare ribellione, tagliare il superfluo, identificare gli ingranaggi più esposti del sistema e biasimarli. Di un anno più giovane di Juan Atkins, ne condivide la passione per l'elettronica e l'influenza di Electrifying mojo. Al contrario di Atkins non risiede stabilmente a Detroit; la madre si trasferisce a Chicago nel 1981; May la seguirà solo a tratti, prendendosi la giusta dose di tempo per focalizzare il groove musicale del momento, conoscere Frankie Knuckles, e tornarsene a Detroit pieno di voglia di creare un movimento
elettr(on)ico.
May incarna la città più di Atkins, senza però riuscire mai riuscire a dare continuità alle sue trovate musicali; May si impegna a fondo nel tentativo di restituire tramite la sua musica l'essenza della città, a suo avviso un misto di freddo industriale e animo caldo, desolazione e "soul", tanto vicino alle sue radici black. Con il tempo arriva a definire il proprio suono come Hi-tech-soul; suono che è spinto dal tentativo di animare le macchine, di dare sentimento (sentire il piano di "strings of life"), speranza, spiritualità. L'arma del delitto più in voga a Detroit diventa il Roland Tr-909. Synth che marchia a fondo l'anima della città.
May ritarda l'arrivo alla composizione vera e propria, dedicandosi soprattutto al djing, fin quando non decide di farsi l'etichetta, la Transmat (nome che deriva dal titolo di un brano di Atkins), e crearsi il moniker Rythm is rythm. E' qui che ha inizio una breve ma intensa e decisiva carriera di musicista solista. Fra l'86 e l'89 mette a segno le hit del suo percorso, la prima è "Nude photo", sintesi di electro, house e techno detroitiana; anche se i synth risultano molto più vicini alle intenzioni acid dei chigagoani che alle diatribe spaziali di Detroit; il mood vira decisamente verso il funky e il soul. George Clinton e Kraftwerk che si scambiano suoni in un ascensore. "The dance", altro singolo di ottimo successo, ne è degno seguito, sempre sulle stesse corde emotive e all'interno delle stesse atmosfere, probabilmente più vicino alla house che alla techno. Ma questa è forse la dipendenza più grande di May, il turntabling di Frankie Knuckles è perfettamente immortalato nelle pitchate e nei reverse che scandiscono i passaggi del brano. Il vero caposaldo della sua discografia esce nel 1987 e sbarca alla grande anche in Europa. In "Strings of life" Derrick raggiunge vette che sarà raro per lui anche solo immaginare nel futuro. Con questo pezzo mette a segno il connubio perfetto che andava anelando da tempo. La house di Chicago e la Techno di Detroit sono un'unica cosa, il pianoforte ci ricorda l'animo soul della città di Detroit, e le tinte sono più sexy che mai, come è d'obbligo per chi ama la musica di Chicago. La Gran Bretagna si innamora del pezzo. Trascina Derrick sull'isola per remixare pop bands e rallegrare la folte truppe di ravers inglesi, che presto lo dimenticheranno per preferigli Aphex twin o i Prodigy. Nel 1991, tenta di tornare alla ribalta, con l'intenzione di formare una mega band stile Kraftwerk con i vecchi compagni di merende Atkins e Saunderson; purtroppo il supergruppo non si fa, anche per colpa di May, che preferisce dedicarsi alla produzione, e mantenere alto il tasso qualitativo della sua etichetta; aiuta Steve Hillage, uno dei pionieri dell'ambient a completare un progetto chiamato System 7; e rende la vita facile a gente che oggi riempie i club di casa nostra con irrefrenabile continuità come Carl Craig, Stacey Pullen e Kenny Larkin.
Finalmente, nel 1995, la Sony giapponese decide di pubblicare una retrospettiva sul nostro uomo, "Innovator", che racchiude tutto il meglio di May, "il Miles Davis della techno".


GLI ANNI 90

Negli anni novanta diventa più difficile per i Detroitiani, ormai rinomati in tutto il mondo, mantenere fede ai loro principi iniziali. In Germania la Basic Channel fornisce un nuovo modello di techno più vicino all'ambient, mantenendo la cassa in 4/4 sui 130 bpm, ma affogando i synth sotto strati di polvere sonora. Il vinile diventa il nuovo synth, il petrolio è la nuova fonte di vita, le strutture armoniche si fanno più raffinate, e anche Juan Atkins come abbiamo detto dovrà cimentarsi in queste varianti. Così il movimento ormai ampio di Detroit, si dirama in più parti, o modelli, che dir si voglia. L'underground resistance si pone a difensore delle origini del suono e soprattutto del credo e della matrice politica di Detroit, guidata da Mad Mike Banks; i loro uomini non appaiono mai, il loro istinto è teso contro il mercato capitalista. La parola d'ordine è resistere, non cadere in tentazione, liberarsi dal male. Maschere e sentenze. Fuoco e fiamme sull'inesatto ordine mondiale.
Juan Atkins trova un vero erede in Drexcyia, ovvero James Stinton (che purtroppo ci ha lasciato qualche anno fa, anche se a sentirlo c'era da aspettarsela una morte prematura "experiments must continue at all costs, even if it means death"), che dà ancora maggiore spazio alle tematiche del mondo immaginario condito di saghe e leggende, trasferendo quello che per Cybotron avveniva nello spazio negli abissi del mare. I Drexcyiani sarebbero dei guerriglieri anfibi cresciuti nelle acque dell'Atlantico, figli di donne africane segregate sulla nave della grande tratta degli schiavi. Obiettivo finale: riportare il popolo afroamericano alla terra promessa, l'Africa. Le guerre non finiscono mai.
Il lato più minimale della techno, quello più influenzato dai cambiamenti che si susseguono in Europa, è rielaborato e portato in paradiso da Robert Hood, che con "Internal Empire" e "Minimal nation" ci lascia probabilmente i due migliori dischi techno degli anni novanta. PUREZZA. MAGIA. INCANTO. DANZARE SULLE NUVOLE. Robert Hood si presenta come un vero mago dell'elettronica, e più di tutti riesce a dare vita alle macchine, riesce a infondere emozione con dei semplicissimi beat gonfi, che rimbombano come pulsazioni dal cuore della terra, togliendo di mezzo le melodie, e lasciando che sia la techno ad aprirci la strada verso il paradiso (sensoriale). Hood cerca il calore e la dimensione soul nelle zone più fredde. Più l'andamento minimale dipingerà un moto alienato e automatico, più caldo e umano sarà il risultato. Hood ci parla della grande desolazione di Detroit, che già May si era sforzato di interpretare: "Detroit è una città fantasma, con tutti capannoni abbandonati... Detroit downtown è la terra di nessuno, con un sacco di neri che non riescono a trovare lavoro mentre i bianchi che vivono nei sobborghi, nelle zone più ricche, arrivano a Detroit, prendono i soldi e tornano nei loro sobborghi. E' come se ci fossero due città distinte. Noi abbiamo cercato di illustrare questa situazione in musica con UR". Hood infatti inizia la sua carriera nell'UR come "ministro dell'informazione", e dj, con un nome come "THE VISION". Riguardo alla svolta minimal, Robert afferma che "Nei primi anni '90 l'hardcore gabba stava prendendo il sopravvento e pensavo che semplicemente ci fosse bisogno di un break. Per uscire da quella situazione l'unico modo era tornare all'essenziale. Ti capitava di entrare in un mega rave e vedevi coreografie con alieni, sangue, richiami al fascismo. Spettacoli dell'orrore in sostanza. Era una gara ad essere il più possibile scioccanti. Per me quella non è arte. La musica per quanto mi riguarda significa altre emozioni. Non può essere sempre dura, non può essere sempre funky, nè sempre triste. Mi premeva reintrodurre un elemento umano nella techno, riportare a galla un concetto come il soul. Tutto il mio suono minimalista ha significato tornare alle radici."
Nel frattempo c'è anche chi fa della propria arte un grosso business, e questi non può che essere Jeff Mills, il vero uomo di successo del branco di Detroit. Che decide di mollare l'Underground resistance per non sporcarsi le mani con la politica, per non rischiare di ferirsi con la ribellione, per non macchiarsi di polvere di periferia. Ma questi sono solo giudizi personali. Anche lui fu iniziato alla techno da The electrifying mojo, nel cui programma si divertiva a mixare, talmente bene da guadagnarsi il moniker "The wizard". Mills, dopo un bel po' di anni spesi a guadagnare e guadagnare, strapagato dj in Europa e iperprolifico nelle uscite per la propria etichetta (Axis), ha finalmente dato un senso alla tanto ricercata cinematicità detroitiana, andando a musicare Metropolis di Fritz Lang, probabile ultimo passo verso la completa transizione della città in futuristica landa afroamericana di strane origini tedesche. La storia è stata già scritta, e benchè Mills possa essere il più noto, la targa con sopra scritto Dio sta a casa di qualcun altro
Dal 2000 in poi la techno e Detroit sono due parole che non possono esistere l'una senza l'altra; tant'è che il museo della città ha onorato i nostri eroi con una mostra speciale, che purtroppo oggi è finita, ma che dimostra il valore del nostro discorso. Nel frattempo dal 2002, annualmente si tiene il Movement festival dove vanno ospiti da tutto il mondo i produttori techno più in voga e più ambiziosi, consapevoli di mettere piede nella vera "Techno city".


DISCOGRAFIA CONSIGLIATA

Juan Atkins "20 years Metroplex, 1985-2005" (Tresor, 2005)
Derrick May "Innovator" (2 cd, Sony, 1995)
Drexciya "The quest" (2cd, Submerge, 1997)
Drexciya "Neptune's lair" (Tresor, 1999)
Robert Hood "Internal empire" (Tresor, 1994)
Robert Hood "Minimal nation" ( Axis,1994)
Marco Lacivita

TRILOBITI
Dodici straordinari racconti di uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento

Breece D’J Pancake è sicuramente uno scrittore fuori dal comune. Muore a ventisei anni suicida, lasciandoci in testamento la sua opera completa: una raccolta di dodici racconti riuniti sotto il titolo “Trilobiti”, che - uscita postuma dopo quattro anni – viene definita unanimamente dalla critica un capolavoro. “Trilobiti” è diventato un classico e il suo autore un idolo che annovera tra i suoi ammiratori personaggi celebri quali Carol Oates - che lo paragona ad Hemingway - Tom Waits, Kurt Vonnegut, e J.T. Leroy che non esitano a definirlo «lo scrittore di una vita».
Breece D’J Pancake, per l’anagrafe Breece Dexter Pancake, nasce il 29 giugno nel 1952 a Milton, nel West Virginia; la notte del 7 aprile del 1979 decide di porre fine alla sua vita con un colpo di pistola, il suo suicidio rimane ancora un fatto inspiegato: nessun biglietto scritto ne un evento scatenante che lasciasse presagire l’accaduto. La cronaca racconta di una notte in cui aveva bevuto molto, era entrato in casa dei vicini, poi – una volta tornati questi ultimi - era fuggito; arrivato di fronte al proprio appartamento decise di spararsi. Se si volesse cercare una spiegazione al suicidio di Breece Pancake la si potrebbe forse trovare nei dodici agghiaccianti racconti di “Trilobiti”.
Le dodici storie sono tutte ambientate nella regione dei Monti Apalachi - in cui l’autore era nato e cresciuto – una regione ricca di miniere, fattorie e miseria. I personaggi di Pancake sono minatori, camionisti, contadini, marinai, spazzaneve, per lo più poveri, legati da una comune inquietudine derivata da un presente immobile, carico di sogni irrealizzati e aspettative insoddisfatte. La voglia di cambiare, di evadere, di partire verso mete lontane non viene mai appagata; i personaggi di questi racconti sono come dei fossili - dei trilobiti appunto - incapaci di muoversi e di agire perché schiacciati dal peso di un passato che grava sulle loro spalle come un macigno: «Mi fermo davanti alla stazione dei pullman, dentro guardo le persone che aspettano e penso a tutti i posti in cui stanno per andare. Ma so che non riusciranno a scappare o che non sarà una sbornia che li tirerà fuori di lì, o che non sarà la morte a liberarli da tutto».
Il tempo è forse il vero protagonista di “Trilobiti”. Il tempo di Pancake è infatti stagnante, “paludoso”, in cui tutto permane, niente muta e ciò che cambia è costretto ciclicamente a tornare. «Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni» afferma il protagonista nel primo racconto dal titolo “Trilobiti”; in questo lento e infinito morire di ogni essere vivente, sembra che esista sempre un istante, un punto di rottura in cui qualcosa poteva essere diverso, poteva cambiare o cessare di esistere; ma non è mai così, tutto resta infatti sempre al proprio posto.
Marco Lacivita

In memoria di Alphonso Ford
Omaggio ad Alphonso Ford, indimenticato campione di basket, sconfitto due anni fa dalla leucemia.

“Cari amici, sono nella sfortunata posizione di dover annunciare che non sarò in grado di disputare la stagione 2004-2005 con la Scavolini Pesaro. Purtroppo, le mie condizioni di salute non mi consentono più, a questo punto, di competere come un atleta professionista.
In questo momento, sono veramente grato verso tutti voi, e verso tutti gli allenatori, compagni di squadra, tifosi, arbitri e dirigenti che, nel corso di tutti questi anni, mi hanno dato l’opportunità di competere nello sport che ho amato di più.
Infine, per quanto riguarda il MIO CLUB, Scavolini Pesaro, voglio di cuore ringraziare ogni persona dell’organizzazione, i miei compagni di squadra, i miei allenatori e i nostri grandi tifosi.
Voglio che ognuno di voi continui ad avere fede.
Siate forti e combattete duro. Il mio cuore sarà sempre con tutti voi.
Con rispetto”.

Alphonso Ford


Alphonso “Fonzie” Gene Ford scrisse questa lettera il 26 Agosto del 2004, nove giorni prima di spegnersi in un ospedale a Memphis negli Stati Uniti.
Il 31 ottobre di quest’anno Ford avrebbe compiuto 35 anni. Noi vogliamo rendere omaggio a questo grandissimo campione, perché la sua memoria non si spenga, e il suo esempio rimanga per tutti una lezione di vita.
Alphonso nasce nel sud degli Stati Uniti, a Greewood nel Mississipi il 31 ottobre del 1971. Si avvicina sin da giovane alla pallacanestro, giocando prima nel suo liceo e poi alla Mississipi State Valley University., diventandone il giocatore più rappresentativo della sua storia (realizzando in quattro anni oltre 3000 punti) e diventando il primo giocatore della NCAA ad avere una media di 25 punti a partita per quattro stagioni consecutive.
Nel 1993 viene scelto al secondo giro del draft dai Philadephia 76ers; il suo fisico “normale” e la scarsa visibilità del suo college purtroppo non gli consentono di emergere nella lega professionistica, e così dopo due anni e sole 11 partite viene “relegato” nella CBA, la seconda lega cestistica americana.
Alphonso decise così di tentare fortuna in Europa, giocando prima in Spagna, poi in Turchia e in Grecia. Nella stagione 1999/00 ha finalmente la possibilità di mettersi in mostra in Eurolega – la competizione di maggior rilievo e prestigio nel Vecchio Continente – con la maglia del Peristeri Atene. Dopo tanti sacrifici Alphonso può finalmente mostrare le proprie qualità cestitiche all’intero palcoscenico europeo: egli non si lascerà sfuggire questa chance, risultando, infatti, il miglior realizzatore della competizione con 26 punti di media a partita.
All’età di 30 anni arriva la prima grande occasione della sua carriera: viene infatti ingaggiato dall’Olympiakos Pireo, uno dei più prestigiosi club europei. Alphonso Ford impressiona per le sue doti atletiche e tecniche diventando uno dei migliori giocatori del continente, viaggiando in Eurolega con la media di 21 punti a partita (ancora una volta top scorer della competizione) e portando la sua squadra alla conquista della Coppa di Grecia (realizzando in finale ben 24 punti).
L’anno successivo arriva finalmente la chiamata dal campionato italiano – uno dei più competitivi d’Europa – è infatti la Montepaschi di Siena, decisa a disputare una stagione da protagonista in Italia e in Europa, a puntare tutto su Alphonso. Anche questa volta Fonzie non tradisce le attese: in breve tempo diventa il leader indiscusso della squadra, migliore guardia della serie A e trascina Siena ad una storica semifinale scudetto. In Europa la stagione di Siena è ancora più esaltante, la Montepaschi approda alle final four di Barcellona, perdendo di soli due punti la semifinale con la Benetton Treviso, ancora una volta Ford si conferma miglior marcatore dell’Eurolega, diventando il beniamino della tifoseria senese.
Nel 2003 Alphonso Ford si trasferisce alla Scavolini Pesaro alla corte di coach Phil Melillo, portando la sua nuova squadra alla finale di Coppa Italia. In Campionato Pesaro cede a Siena in semifinale, Alphonso gioca la sua ultima partita il 29 maggio 2004 contro la sua ex squadra, realizzando nove punti in dodici minuti d’impiego. Pesaro gli propone un rinnovo di contratto, Alphonso tentenna, ma poi si convince a firmare; poco tempo dopo giunge a sorpresa il terribile annuncio e la commovente lettera (interalmente riportata sopra): dal 1997 era malato di leucemia.
Per ben sette anni Alphonso Ford teneva nascosta la malattia che lentamente e silenziosamente lo stava uccidendo, per ben sette anni egli ha continuato a giocare deliziando i parquet di tutta Europa e diventando l’idolo di molte tifoserie. Chi lo ha visto giocare lo ricorda come un grande campione e un atleta fuori dalla norma, infallibile nel suo tiro in sospensione e indifendibile nell’uno contro uno, aveva la capacità di far esaltare con le proprie giocate persino le tifoserie avversarie.
Mai protagonista fuori dal campo, sempre lontano dai riflettori e dai vizi, Alphonso Ford rimane un simbolo non solo per la pallacanestro italiana ed europea, ma anche per l’intero universo sportivo. Il suo amore per la vita e il basket, il suo coraggio e la sua determinazione nell’andare avanti ben consapevole del proprio destino devono rimanere una lezione e un modello da imitare per tutti.
Marco Lacivita


ROMA CAPUT BASKET
L’NBA Europe Live Tour sbarca a Roma, arrivano i Phoenix Suns!


ROMA, 7/10/2006 – L’attesa è finalmente finita. Sono sbarcati a Roma i Phoenix Suns. La risposta in città è stata altissima: biglietti esauriti da giorni, inaugurazione di due nuovi playground e in più la creazione di un villaggio NBA alle terme di Caracalla che in una settimana ha ricevuto la visita di oltre mille bambini. Una città impazzita per la pallacanestro come non succedeva da tempo: articoli in prima pagina su testate sportive e non, bimbi per strada che sfoggiano i completini bianchi e viola di Steve Nash e compagni, insomma un entusiasmo speciale per un evento davvero speciale.
L’ingresso all’interno del Palalottomatica è da brivido, il palazzo è quasi esaurito in ogni ordine di posto e il parterre sembra un palcoscenico in cui sfilano presidenti di società, politici, calciatori, ex-giocatori e sindaci tifosi.
La partita ha inizio, ma, già dopo la presentazione di entrambe le squadre si percepisce che lo spettacolo a cui si sta per assistere sarà qualcosa che di europeo, a parte il roster della Virtus Lottomatica Roma, avrà ben poco; basta infatti il primo time out per rendersi conto che non basteranno i classici due minuti a mostrare le coreografie di una trentina cheerleaders.
Come ci si poteva aspettare la partita in sé, trattandosi di un’esibizione, non offre grandi emozioni, tuttavia il pubblico del Palalottomatica sembra apprezzare e divertirsi. Come detto, alle giocate sul parquet si alternano spettacoli acrobatici, giochi circensi, intrattenimenti musicali e presentazione di antiche leggende NBA, insomma chi si aspetta un classico match di pallacanestro capisce di trovarsi nel luogo sbagliato.
Roma inizia la sua partita schierando Ilievski, Bodiroga, Hawkins, Garri e il nuovo centro greco Mavrokefalidis, dall’altra parte il quintetto di Phoenix propone Nash, Marion, Bell, Thomas e Diaw. Da un lato gli statunitensi mostrano la loro netta superiorità grazie ad un inizio di Marion devastante (i primi nove punti dei Suns sono suoi), dall’altro Bodiroga e Hawkins dimostrano di essere all’altezza dei loro avversari. Il primo quarto si chiude però sul punteggio di 27 – 17 per gli americani, con Mavrokefalidis che paga la severità della terna arbitrale con tre falli e Ilievski subito punito da Repesa.
Nel secondo quarto inizia lo show di Steve Nash, che, pur non in perfette condizioni fisiche, delizia gli occhi degli oltre diecimila spettatori del Palalottomatica, con assist e passaggi “no look” portando Phoenix al massimo vantaggio: + 14. Si risveglia Roma grazie alla zona ordinata da coach Repesa e all’ingresso di un buon Righetti; un parziale di 12 – 2, concluso dal solito Bodiroga porta Roma a quattro lunghezze dagli ospiti. Il finale di tempo è però tutto in favore dei Suns che, sfruttando un maggiore atletismo “bucano” in contropiede la difesa di Roma chiudendo sul 54 a 43 la seconda frazione di gioco.
Il terzo quarto riassume in due azioni la differenza tra le due squadre e forse tra due scuole di pallacanestro diverse: Ilievski e Hawkins falliscono l’alley oop che tanto male aveva fatto alle difese avversarie la scorsa stagione, dall’altra parte Nash ripete la stessa giocata con Marion, e la semplicità e la naturalezza con cui l’azione viene eseguita lascia il pubblico romano a bocca aperta. Il vero protagonista del quarto è però il brasiliano Leandro Barbosa che segna sia da fuori che dentro l’area pitturata, complice anche una difesa incapace di contenere il suo “primo passo”, e che porta Phoenix sul punteggio di 78 a 62.
Si apre così l’ultimo quarto di una partita che ha già decretato il suo vincitore; inizia il “garbage time” in cui tattica e difesa non hanno più senso e si pensa unicamente allo spettacolo, la partita si conclude con una schiacciata di Diaw sul punteggio di 93 – 100 per i Phoenix Suns.
Il Palalottomatica così lentamente si svuota, lasciando agli spettatori presenti la sensazione di aver assistito ad un evento unico, non tanto per la qualità del gioco espressa, quanto per l’organizzazione della serata nel suo insieme, improntata su un modello di intrattenimento a noi ancora estraneo, ma di certo piacevole.
La speranza è ovviamente quella di poter rivedere un franchigia NBA a Roma anche il prossimo anno; le carte in regola ci sono tutte: a partire dal particolare entusiasmo del pubblico romano – come è stato ammesso dagli stessi organizzatori dell’evento – fino ad arrivare al dichiarato amore del sindaco Veltroni per la pallacanestro.

sabato, novembre 04, 2006

Arte Biologica al Macro
Alessandro Morino

Magari capita a tutti di svegliarsi una mattina con un ‘non so che’ sobbalzante nello stomaco e nella mente. Una strana sensazione di indefinito, una domanda, forse la solita, a cui però non si è ancora trovata risposta. In certi casi, allora, è bene prendere un po’ d’aria, schiarirsi le idee e magari cercare l’ispirazione risolutiva davanti qualche particolare figura, qualche buon disegno e soprattutto davanti l’espressione diretta di un pensiero che, giusto o sbagliato, bello o brutto, può comunque aprirci porte che non immaginavamo potessero esistere. Allora magari si può fare un giro al MACRO e scoprire un artista eclettico, colorato ed evidentemente tanto innamorato della vita quanto affascinato dalla morte. Marc Quinn può essere la persona capace, con la sua multiforme arte, di sbalordire e avvicinare ancor più quella realtà tanto “normale”e quotidiana che ci circonda e ci appartiene. Nato a Londra nel 1964 dove vive e lavora, esordisce nel 1988 con la personale Bronze Sculputure, alla Jay Jopling/Otis Gallery di Londra. Ad essa seguono innumerevoli esposizioni in tutto il mondo, che gli hanno valso il premio nel 2004 della Fourth Plinth Commission per Trafalgar Square, dopo aver ottenuto nel 2001 il The Royal Academy of Arts Charles Wallaston Award a Londra.
La sua opera spazia liberamente toccando una molteplicità di tecniche, di mezzi espressivi e di soggetti contestualizzabili all’interno del naturale processo della vita. Attraverso l’utilizzo di molteplici materiali inconsueti, ad esempio materiali organici come il sangue, la placenta e il DNA, egli ci mostra spaccati d’esistenza, sezioni del reale strappate via al tempo e catturate all’interno di involucri espressivi che chiedono di essere semplici testimonianze della vita e/o della morte, lungo tutto il loro processo. L’arte di Marc Quinn può essere definita come “uno specchio che riflette le evoluzioni umane che lottano contro l’inesorabilità della natura”. Tale circostanza è espressamente visibile in Sky (2006), il calco del capo neonato del figlio dell’artista, realizzato con la placenta umana e il cordone ombelicale. È un’immagine di una creatività toccante, in tensione tra la vita embrionale nel grembo della madre e la vita alla sua prima luce mondana. La fine di una vita nascosta e l’origine ma già continuazione della vita stessa che si impadronisce del tempo ed è capace di essere artificialmente immortale. Attraverso una scultura ‘organica’, l’artista è stato capace di fermare il tempo nel suo inarrestabile fluire e di contenere uno stadio del processo naturale, chiudendoli all’interno di un cubo di vetro come in una dimensione neutra.
Un senso di innocenza al cospetto della multiforme vita è visibile proprio nell’opera Innoscience (2004). Sono una serie di sculture di corpi umani, adagiati a terra ma sospesi in smorfie d’esistenza che solo nella sostanza della loro composizione materiale si fanno coscientemente drammatiche. L’artista mescola organicamente il richiamo all’arte neoclassica plasmata di cera all’utilizzo di sostanze artificiali come medicinali, segno materico di un confronto tra la bellezza ‘estetica’ della vita e il suo interno vario, corposo che può nascondere la malattia e la mortalità dei corpi stessi. Allora si può notare la scultura di un bambino, suo figlio ancora, nutrita di quelle stesse sostanze artificiali di cui il piccolo si nutriva poiché allergico al latte. O ancora la figura di una donna malata di HIV, al cui interno sembrano circolare sostanze che combattono la morte. Perché in fondo è proprio questo che Marc Quinn cerca di fare: scolpire la vita nella materia morta.
Da non perdere è Dna Garden (2001), una grande installazione in acciaio esposta come una grande finestra iconografica sulla vita, sulla sua più germinale composizione. Sono 77 piastre che contengono DNA clonato, di cui 75 vegetale e 2 umano, con cui l’artista inglese ancora una volta, arresta il naturale ciclo biologico, lo seziona e come uno scienziato ne estrae la funzione primitiva cristallizzandola nel tempo. È un gioco di sperimentazione che Marc Quinn attua con l’entità naturale; è un adorare la vita stessa nella sua più complicata semplicità; è un venerare la tecnologia biologica capace di sondare tale vita; è lo scheletro d’uomo, prostrato in preghiera, che idolatra se stesso.
La parola e l'immagine
Alessandro Morino

Nella società in cui viviamo sovrabbonda in presenza la parola. Ovunque guardiamo, ovunque volgiamo lo sguardo è difficile non notare questa presenza possente, pesante, continua, ripetitiva, ridondante.
Magari, in realtà il più delle volte non ci si fa neppure caso, non lo si nota, non ne abbiamo coscienza; ma è proprio questa ‘incoscienza’ o meglio questa nostra coscienza ‘ipnotica’ che deve essere valutata con attenzione.
Tale attenzione non può non farci notare come la parola che dovunque si mostra, non si mostra da sola. Oggi essa è strettamente legata ad una immagine. Si riferisce costantemente ad una immagine. Questo tempo ha sancito il matrimonio della parola con l’immagine: PAROLA-IMMAGINE IMMAGINE-PAROLA……. Siamo tutti invitati al gran banchetto, alla gran solennità della società del mercato “mediatico”.
In questo mercato mondiale dello spettacolo la comunicazione “deve” di per sé essere uno show-business, un’esibizione di settore, un varietà di marketing. L’immagine allora si pone come mezzo diretto, poiché “d’effetto”, della comunicazione di massa.
Ad essa sempre più è affiancata la parola; una parola spesso non in relazione all’immagine, una parola, certo, d’impatto, che desti immediato interesse (un interesse non di sostanza ma un interesse sciapo e illusionistico). Una parola svuotata di se stessa, che è immagine essa stessa: una ‘parola-immagine’.
Così la parola è entrata nella società dello “spettacolo commerciale” come ‘mezzo commerciale’; come un “mostrarsi” continuo, diretto, semplicistico che è sola parvenza, immagine appunto. Come un’apparire fuggevole ovunque e comunque, ma che è già un rifuggire, un ritrarsi della parola stessa dal suo vero e proprio essere. C’è una iper-presenza di questa parola-immagine che svaluta la parola stessa, la priva della sua essenzialità, la priva del suo spirito profondo, castrandone tutta la potenza.
Allo stesso tempo oggi la parola è un ‘prodotto di mercificazione’; prodotto essa stessa dell’industria di mercato, poiché mezzo funzionale alla mercificazione. Rigorosamente incatenata all’immagine, la parola è l’usufrutto dello strabiliante spettacolo di mercato ma ne è necessariamente anche il prodotto spettacolarizzato. È lo spettacolo di se stessa come mezzo del mercato di consumo, ma esibendosi tale consuma se stessa al pubblico-consumatore e diviene merce della società dello spettacolo. È una costante presenza mercificata e una continua riproduzione settoriale che si riflette come parvenza e come sciapa immagine assaporabile all’uomo di consumo. Così la parola è oggi anch’essa un commercio mediatico. Una mercificazione simbolica che dis-prezza la parola del suo valore originario e genuino e la getta nel mercato dell’oggettivazione come nuova parola d’abbaglio. Una parola condizionata dal mercato, defunzionalizzata, rivolta allo stesso mercato come univoco messaggio pubblicitario puramente formale. Un “solletico visivo”, poiché la nuova parola “non deve essere letta” ma deve colpire come semplice immagine. Il contenuto, il significato non hanno interesse nei messaggi mediatici. Già M. McLuhann, studioso dei media e visionario di teorie massmediologiche, aveva notato come non ci sia alcun interesse da parte dei media verso il contenuto stesso; “pensare che i media davvero trasmettono messaggi è pensare che la funzione dei ladri sia quella di cibare i nostri cani per distrarli mentre la casa viene derubata”, considerava riprendendo un aforisma di T.S. Eliot sulla poesia. Poesia e media ottengono i rispettivi effetti tramite la struttura formale dei loro messaggi, non tramite il loro contenuto.
Così l’uso molteplice della parola nel pianeta dello spettacolo commerciale moderno punta unicamente a creare un cortocircuito, una scintilla d’interesse nell’uomo consumatore. Ecco allora la moderna parola come messaggio mediatico, come mezzo di convinzione. Come diceva McLuhann, i media non ci “veicolano” qualcosa ma ci modellano e ci trasformano, tali che noi meccanicamente accettiamo il loro messaggio, o meglio la loro comunicazione. Il mercato della parola struttura la nostra stessa percezione e quel che pensiamo è legato al modo in cui percepiamo. Ancora McLuhann affermava come i media possano essere delle estensioni dello stesso corpo umano, capaci di amplificare le possibilità di percezione di quello. Risulta evidente d’altro canto come tali nuove estensioni si rivolgono tutte verso un’unica direzione: il pericolo allora è quello di una forma mentis ben progettata e costruita nei laboratori mediatici. Il vero pericolo è quello di una “lettura” globale e totalitaria; i media favoriscono l’imposizione di strategie unitarie di pensiero, di sensibilità, di sentimenti. Creano commercialmente un nuovo corpo, un corpo di pura e semplice forma. Un corpo nuovo composto di protesi aggiuntive, fabbricato di nuovi arti, di un nuovo sentire: un corpo che è un artificio ipermanipolabile. L’uomo d’oggi è un lettore che fa zapping e questo gli viene richiesto. Non deve interessargli ciò che legge o vede o sente; l’uomo è ben conformato ad evitare quanto più possibile le logiche della dimostrazione; il suo solo interesse è verso ciò che si mostra d’impatto, d’effetto, come autoevidenza.
E magari questo uomo moderno, conforme a stabiliti meccanismi di mercato e meccanismo egli stesso della cultura dello spettacolo, che accetta una parola devitalizzata, potrà accettare anche che “la moderna Cappuccetto Rosso allevata a suon di pubblicità non ha nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo”.