
venerdì, marzo 02, 2007

Ruini e il mondo civile
Disturba e rende spesso increduli la banalità delle argomentazioni che quotidianamente i mezzi di informazione riportano ad un pubblico ormai assuefatto alla stupidità tanto da prenderla come norma.
Lo stesso atteggiamento sconcerta quando arriva da fonti che, per autorevolezza e rigore, dovrebbero mostrare la più alta rappresentazione di rigore logico e capacità dialettica.
Il riferimento, per molti ovvio tanto da rendere oziosa la citazione, è all’intervento del cardinal Ruini nella prolusione (leggi discorso introduttivo) al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana in veste di presidente della Cei. Stupisce quindi la totale assenza di chiare strutture argomentative, che non includano per lo meno errori banali, in un discorso di così alto livello.
Proveremo a vedere solo alcuni dei temi che più appassionano l’opinione pubblica mostrando al tempo stesso non tanto la distanza tra le posizioni espresse e i basilari principi di rispetto dell’individuo quanto la pressoché assenza di una volontà esplicativa ad un livello che non sia propagandistico.
Tra i temi d’attualità sociologico – normativa il cardinale affronta con particolare vigore quello delle unioni di fatto e garanzie costituzionali. La struttura del dialogo parte dalla constatazione del rapporto uomo donna nella forma del matrimonio come l’unico passibile di essere garantito a livello giuridico. Le giustificazioni proposte mettono l’accento, come è nell’ultimo trend filosofico, sulla netta distanza da ogni tipo di relativismo etico e questione sociologica. Si espone lo stretto legame tra diritto naturale e matrimonio, come espressione dell’essenza dell’essere umano, eludendo tanto la questione di culture in cui si è storicamente diffusa la poligamia quanto quei particolari ordini religiosi in cui si pratica il voto della castità, e di questo è possibile che si sappia qualcosa.
Difatti, se è nell’essenza dell’uomo la propensione di questa tipologia di relazione, non si spiega come, storicamente, si siano date altre configurazioni dei legami. Ovviamente tale questione non poteva essere affrontata né accennata dato che una qualsiasi risposta avrebbe comunque portato alla natura culturale dell’essere umano, che se da un lato poteva spiegare il perché di scelte d’astinenza, dall’altro portava un buon punto d’appoggio a quanti sperano nella possibilità di unioni omosessuali garantite, al pari di quelle eterosessuali, dal versante giuridico.
Oltre alla questione legata a temi di diritto naturale l’altra pseudo – argomentazione fa riferimento allo scopo ultimo del legame matrimoniale, la procreazione. Evidentemente l’attacco è, ancora una volta, alle unioni omosessuali, impedite dalla natura in tale processo.
L’attacco rischia di apparire pesantemente anacronistico in una situazione storica e in un quadro normativo che prevede tanto tecniche di fecondazione artificiale quanto possibilità di adozione (anche se la vigente normativa non garantisce ancora coppie con diverso orientamento sessuale, in quanto la Costituzione, all’articolo 3, non afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; o forse si ma potrei sbagliare).
A leggere le parole del cardinale sembra quasi di trovarsi di fronte un uomo di più di un secolo fa : «Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il ‘matrimonio di prova’, fino allo pseudo – matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell’uomo».
In quanto tanto si è insistito nel secolo appena concluso sulla presa di controllo del singolo sul proprio corpo, legittima proprietà dell’individuo, e che sia banalizzato o meno deve comunque essere lasciato alla libertà dell’individuo. Inoltre è totalmente scollegato dal contesto l’utilizzo del termine anarchico riferito ad una situazione storica nella quale un determinato gruppo di persone si mobilità e lotta per il riconoscimento di un diritto, per l’inserimento cioè di una situazione di fatto in un quadro normativo, anche perché un uso anarchico, e cioè non regolato da leggi, del proprio corpo e della propria sessualità (eccettuati i contesti di violenza personale) è, e speriamo resti, garantito dalla legge.
Ripeto, inorridisce un così basso livello argomentativo da chi si pone a vertice di una delle più ampie e rappresentative comunità religiose mondiali, da chi vuole instaurare un dialogo tanto con il mondo politico quanto con quello culturale, anche perché il serio rischio è che non vengano neppure più presi come referenti validi, ma solamente come chiacchiere da bar. Sarebbe un vero peccato se ciò avvenisse, anche perché il libero scambio di pensiero è ciò che di più appassionante possa accadere tra stati liberi e democratici.

Decoder digitale e concorrenza
Gli investimenti attuati attraverso incentivi statali per lo sviluppo della televisione digitale sono risultati un nuovo smacco per la libera concorrenza, utopia di un mercato libero che stenta ancora in Italia.
Il riferimento è all’iniziativa a firma del governo Berlusconi nel 2004 e 2005, il contributo statale dai 70 € ai 150 €, per l’acquisto dei decoder per le trasmissioni in digitale terrestre.
L’operazione, a parere della commissaria europea alla concorrenza, Neelie Kroes, comporterebbe un “vantaggio indiretto” agli operatore del settore, e gli aiuti forniti all’acquisto risulterebbero di conseguenza illegali. Per questo gli operatori saranno tenuti a rimborsare gli incentivi in questione almeno parzialmente.
L’operazione è stata compiuta in larga scala su tutto il territorio italiano, anche se le uniche zone nelle quali avrebbe avuto senso sarebbero state la Sardegna e la Valle d’Aosta, a copertura televisiva estremamente limitata.
Nonostante il fatto che le iniziative puntate ad una maggiore diffusione degli accessi alle tecnologie siano in larga misura meritori, tanto per quanto riguarda l’accesso alla tv digitale quanto a reti wireless gratuite, l’elemento negativo di questo singolo caso è la non neutralità dal punto di vista tecnologico in quanto le due grandi emittenti televisive in chiaro (Mediaset e Rai) dispongono di una potenza di comunicazione tale da monopolizzare anche il mercato digitale potendo pubblicizzare i loro prodotti in chiaro e, messi assieme, su 6 delle 8 reti a maggior copertura sia in termini di territorio che di audience.
Le motivazioni addotte dalla commissaria Neelie Kroes riguardo a tali finanziamenti sono che essi : « sono incompatibili con le regole per gli aiuti di Stato, in quanto non sono neutrali da un punto di vista tecnologico e creano una distorsione indebita della concorrenza, escludendo la tecnologia satellitare».
Tale inchiesta è partita in seguito ad una lunga serie di segnalazioni da parte di operatori del settore schiacciati dal controllo pressoché totale delle due aziende su citate sul pubblico televisivo, piccoli operatori che vedevano nella digitalizzazione del segnale una possibilità di apertura del mercato in termini di libera concorrenza.

SICK SAD WORLD
Banda larga - cultura – controllo
La diffusione della tecnologia invisibile, quella che fa da supporto ai nostri strumenti informatici, mostra il suo doppio volto solo analizzando a grana fine le diverse applicazioni che si stanno diffondendo nei piccoli e grandi centri urbani.
Gli esempi più significativi vanno dalle reti gsm per i telefonini al wireless per la connessione alla rete senza l’utilizzo di cavi telefonici.
Lo sviluppo di prodotti di comunicazione a basso costo ha reso sempre più necessario rendere l’accesso alla rete libero e il più diffuso possibile, tanto in zone ad alta densità di popolazione, come le grandi città, quanto nei piccoli centri nei quali non riescono ad arrivare, a causa del dislivello tra costi di gestione ed impianto e ritorno economico, i gestori di rete.
L’idea politica di base è di intensificare i servizi tanto per il turismo, come ad esempio in città come Roma, quanto per incentivare il telelavoro nei piccoli centri e tentare un ripopolamento di zone distanti dalle grandi industrie.
Il progetto in corso d’attuazione a Roma, presentato dal sindaco Veltroni e dal presidente di Roma Wireless Gianni Celata si muove esattamente in questa direzione. Si tratta di Viaggio in Roma ed aiuta il turista a scoprire i luoghi e la storia del centro storico attraverso l’uso della tecnologia senza fili.
La rete sarà implementata nella zona della Roma barocca, assieme a San Pietro e Castel S. Angelo e in oltre settanta punti di interesse. In prossimità di ogni zona si potrà accedere al portale contenente informazioni architettoniche, storiche e culturali. Il sistema sarà gratuito per tutti gli utenti e supererà in completezza e semplicità d’uso le varie guide turistiche della città. Sarà accessibile tanto da smartphone che da notebook e basterà accedere e muoversi nell’interfaccia interattiva per consultare tutte le informazioni necessarie.
Ma, come si è già detto, non è solo per motivi legati al turismo che le città si stanno dotando di tali tecnologie. Oltre allo sviluppo economico si tenta di dare risposta anche alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Centri urbani con scarsa densità abitativa ma ampi territori sono difficilmente gestibili, nei termini di sicurezza, dalle sole forze dell’ordine. Un caso interessante è quello di Marsaglia, un comune di poco più di 300 anime nel cuneese, nel quale i continui furti in appartamento e i conseguenti timori dei cittadini hanno portato la popolazione a richiedere interventi di tele – sorveglianza capillari. Il sistema frutta la tecnologia wi – fi e tredici videocamere per sorvegliare l’area. Le caratteristiche morfologiche del territorio, 13 chilometri quadrati che coprono tre colline, con le rispettive valli, lungo 80 chilometri di strada. In rispetto alle leggi sulla privacy le telecamere non sono a registrazione continua, ma entrano in azione solamente in corrispondenza a determinati eventi (come, ad esempio, il passaggio di un auto). Le immagini vengono inviate ad un server centrale alla municipio. Le stesse immagini vengono distrutte dopo tre giorni a meno di una esplicita richiesta del magistrato o delle forze dell’ordine. L’effetto deterrente è assicurato, almeno in base alle stime effettuate in questo primo periodo, restano dei dubbi riguardo allo sviluppo futuro di questi sistemi.
I problemi che si intravedono all’orizzonte sono due: la questione della libertà personale e gli eventuali abusi delle informazioni raccolte.
Se tali esigenze venissero sentite anche da altri comuni il fenomeno potrebbe estendersi a macchia d’olio, dati i relativamente bassi costi, fino a creare reti integrate di sorveglianza anche in zone a più alta densità fino a monitorare ogni attività individuale in spazi aperti (e non è detto che la situazione si limiti agli spazi pubblici).
In secondo luogo non si ha la certezza che tali informazione non possano essere “rubate” da aziende private al fine di monitorare ancor più da vicino i comportamenti dei consumatori ed avere nuovi strumenti di marketing ancora più invasivi.
Si spera che il buon senso prevalga e le esigenze di sicurezza trovino il giusto compromesso con le istanze di liberà individuale.

Per una poesia della carne
È stato, lo sarà.
La cultura letteraria è stata e continua inesorabilmente ad essere elitaria. Credo che questa costituzione debba essere posta alla base di un qual si voglia dire oggigiorno, come ieri. Il club privé è cosa riservata, necessita di un invito per l’entrata, per la vecchia festa ossidata. ‘Stile di Vita’ che si ostina a restare socchiuso nelle pagine di un soffuso salotto accademico. Uno status sociale che percorre e ripercorre stantie aule universitarie o circoli di produzione statica. In fondo è questo quel che conta, la parola chiave dell’avvenire porta un solo nome scritto a caratteri cubitali: prodotto di facile consumo. Così per facilitare bisogna che tutto venga parcellizzato. Parcellizzare il prodotto, parcellizzare il lavoro, parcellizzare l’individuo, il suo corpo, la sua mente, la sua coscienza, il suo sentire. Parcellizzare il reale in compartimenti stagni di agevole fruibilità e di largo consumo.
Con tale processo di -Automazione- si è voluta vestire l’Università stessa. Essa interna il procedimento conoscitivo in un alveo nozionistico pianificato su standard di coltivazione organica, ufficiale e sciapa. Edifica castelli di sabbia della mente che ci lascia trasportare come muli da soma con paraocchi educativi, libretti d’istruzione coatta e sezionata per chi prima arriva ad una ‘lobotomia’ del sapere precario. E come un cancro ramificato si espande alla totalità (o quasi) del contesto collettivo, si avviluppa all’intera società-macchinario. Ogni cip deve essere funzionale, specifico….. di “ultima generazione”.
Cosa ne resta del “povero attempato campo letterario”? Della fertile-futile poesia? Un uso-frutto commerciale! La ‘scelta’ oggi è semplice, a portata di mano. Ma è ciò che si vuole: proiettare le menti meccanizzate in modelli prodotti per una continua produzione e riproduzione e riproduzione dell’identico.
Oggi la cultura letteraria non può far altro che avere una funzione inorganica, una funzione di alterità carica di de-costruzione, de-funzionalizzazione dal meccanismo globale. Deve spaccare il reale.
La poetica deve iniettarsi nel ‘più reale’. Assaporare il confine indotto e discioltasi, scrollare via di dosso la propria patina auto-commemorativa, rivivendo il reale nella sua propria carne.
Una poesia che sia di “non-parte”. Una poesia che non si pone o dispone su di una stabile posizione. Che non ricerca un’affermazione, ma che si afferma come ricerca. Poiché la poesia non può essere affermazione, sarebbe solo una affermazione. Essa è coscienza dicotomica! È un taglio netto “tra”. Un gioco, magari, senza regole o regolazioni di partito. Un gioco dissonante, illuminato e scarnificante.
La poesia deve auto-amputarsi la vecchia carne putrida e rigenerare la propria ‘nuova carne’ nella stessa carne. È una domanda che si sradica dalla propria risposta. Una liturgia dissacratoria come una implosione caotica. La poesia deve essere una compressione atomica delle viscere, che si ramifica assorbendo il reale e l’irreale, che digerisce e defeca vertigini d’instabilità corrosiva.
Deve essere il fuoco pesante di questa età!
La poesia deve muoversi contro quest’oggi fatto di sole immagini. Immagini concesse e compresse nelle menti come consuetudine “straordinaria”, ma che di straordinario ha solo la colorazione formale di un coercitivo ‘senso di appartenenza’, che tanto ci aggrada e ci aggrazia d’una sostanza che si liquefa al primo sostare di pensiero. E’ contro tale regolare visione del reale che dobbiamo porci; dobbiamo trasmutare la nostra prospettiva di senso verso l’orizzonte del corpo reale, del nostro corpo totale da cui siamo estraniati.
E se l’immagine è l’arma a cui ci hanno assuefatto, noi la useremo di rimando. Ma un’immagine sostanziale, che solletichi le membra, che graffi la mente. Così la parola sarà ‘azione’. Sarà un esorcismo del corpo, sarà il rigurgito delle membra; sarà la sua stessa crescita. Semplicemente, sarà corpo nella pienezza: il corpo creatore e l’atto stesso del creare e la creazione stessa.
Allora la poesia ci farà riscoprire la nostra carne, ri-insegnandoci a sentire la nostra carne. Colpirà la nostra coscienza, scuoterà le emozioni, condurrà nelle caverne più profonde e segrete dell’ essere come esser-ci.

De Chirico
Il 28 Gennaio si è conclusa a Roma la mostra che la galleria Mucciaccia ha dedicato esclusivamente ad uno dei più grandi, insoliti e geniali maestri della pittura del Novecento, Giorgio De Chirico.
Nelle sale che si affacciano discretamente in una piazza dell’Aracoeli sovrastata dal gigantesco e neoclassico Vittoriano, una trentina di quadri del pittore “greco”, tra l’altro così tanto affezionato a Roma, hanno trovato largamente posto tra le mura ben illuminate del cinquecentesco palazzo “Muti Bussi”.
La mostra, nel complesso gradevole, gratis per i visitatori, curiosa nella disposizione delle opere stesse, è da considerarsi comunque un vero fiore all’occhiello tra quelle che il mese di Gennaio ha potuto offrire ai Romani e ai turisti appassionati di arte.
Le opere presenti lasciavano spaziare il visitatore dai famosissimi e classici paesaggi metafisici del maestro, a quelli certo meno noti, assai più naturalistici, e forse anche più enigmatici e suggestivi dei primi. Accanto a quei simbolismi tanto conosciuti e così tanto proposti da De Chirico – come ad esempio nel presente “Le muse inquietanti” o nell’altro capolavoro che si poteva ammirare “Interno metafisico con grande fabbrica” – era notevole la presenza di quei quadri minori, che fortemente sono intrisi di atmosfere, stili e rappresentazioni che riportano immediatamente a quelle di altri maestri, dell’arte del cinquecento, del romanticismo inglese, del pointillisme ed impressionismo francese.
Se osservando i più famosi quadri metafisici rimane il dubbio di non aver appreso tutto quello che c’era da apprendere, come se tutti quegli oggetti presenti rimandassero a delle alchimie segrete (si pensi alle bacchette e agli altri strumenti come il goniometro e il compasso, tanto vicini alla tradizione Massonica), in quegli altri quadri dove invece la natura fa da protagonista, la domanda che assale è se la malinconia che se ne trae sia un’atmosfera di questa terra o di chi sa quale mondo nascosto; non ci si può non chiedere se i paesaggi naturali ritratti, siano veramente reali, per le emozioni che generano, o solo parte di un mito, di un sogno, che lasciano perciò intendere e respirare delle emozioni che potremmo dire mutilate vista la loro origine irreale.
Così malinconici da riuscire a sconvolgere l’animo alla prima visione, i paesaggi caratterizzati da quegli elementi estranei, come le colonne greche in riva al mare o anche i personaggi che li popolano come strani cavalli e nudi cavalieri, non possono che riportare ad un’affinità con un altro grande maestro del ritorno all’ordine figurativo del novecento, quel Magritte che in una maniera forse meno profonda ma altrettanto forte, spiazza, mostrandoci non proprio il solito aspetto della realtà.
L’evento, con la cura, su testi, del professor Paolo Baldacci, ha visto edito anche un catalogo dato alle stampe da Mucciaccia Editore, il quale potrà indubbiamente affrontare la questione con una maggiore attenzione ed un estesa chiarezza che qui non può trovare spazio.
Unica grave pecca, fatto assai curioso, che perciò caratterizzava l’evento e che non si può fare a meno di segnalare, stava nell’assenza delle classiche targhette indicanti il titolo del quadro, la data di realizzazione, la grandezza della tela, la tecnica usata, cioè insomma nell’assenza di tutte quelle preziose informazioni che sono la carta d’identità del quadro stesso.
Non si capisce come mai possa essere stato omesso un elemento tanto essenziale, per i pittori quanto per i critici ed i profani d’arte, che quasi riduce un importante evento d’arte, in una visita ad un salotto del centro, certo così insolitamente e preziosamente arredato!
Purtroppo il ricordo di questa nota dolente non può lasciare del tutto convinto un visitatore, anche non troppo esigente, e la sensazione che debbo dire di aver personalmente provato all’uscita della mostra, in questo modo, è stata quella di aver partecipato ad un evento passeggero, quasi evanescente, che di certo non corrisponde all’importanza critica che in verità gli si dovrebbe attribuire.
Una sensazione di amaro e di delusione che solo a freddo si riesce a coprire col ricordo di emozioni ben più forti e trascinanti i cui quadri del maestro sanno portare a galla.
Massimiliano Matarazzo

L’arte del Tattoo
Di questi tempi è arduo se non quasi impossibile passeggiare su di una spiaggia senza vedere corpi disegnati e colorati. Persone di tutte le età, sesso e ceto sociale espongono sui propri corpi tatuaggi dalle diversissime forme e disegni. La moda, come spesso accade, ci ha fatto riscoprire una antichissima arte dell’essere umano, una pratica socio-culturale che sembra risalire ad oltre 5000 anni fa.
Oggi avere un tatuaggio significa per alcuni semplicemente seguire la moda, decorare il proprio corpo principalmente per un fatto estetico e nulla più; per altri il tatuaggio è un modo per comunicare in modo diverso e rivelare magari aspetti più profondi di se stessi; per altri ancora è un atto di ‘trasgressione’ (se può ancora essere definito tale) verso una “condanna” sociale. Di fatto oggi l’atto di farsi incidere la pelle è l’ennesima impresa di ricerca della volontà che vuole affermare la propria identità, qualsiasi essa sia.
Ma qual è la storia di questa antica usanza dell’essere umano di ornare il proprio corpo?
Certamente i motivi che hanno indotto secoli addietro e ancora oggi inducono gli uomini a tatuarsi sono diversi e strettamente legati alle realtà storiche, sociali e religiose a cui ognuno di essi appartiene. In tempi molto lontani, e ancor oggi presso alcune popolazioni, il tatuaggio funge da amuleto contro gli spiriti malvagi, contro pericoli e malanni. In altre culture esso è parte fondamentale di riti iniziatici o esprime devozione e fede religiosa. Il tatuaggio può essere anche un segno nobiliare o gerarchico che stabilisce il ruolo o l’appartenenza dell’individuo ad un particolare rango della società; oppure un modo per marchiare gli schiavi, i prigionieri e/o i criminali, come avveniva nell’antica Roma. Per secoli è stato visto come simbolo della marginalità e della trasgressione, quindi mal visto dalla società occidentale. Alfabeto dell’emarginazione per marinai, carcerati e prostitute, oggi ha riacquistato consenso e diffusione ed è stato rivalutato addirittura come forma d’arte.
Il termine tatuaggio è di origine polinesiana e deriva dalla parola Tattow (poi Tattoo) o “tau-tau”, onomatopea che ricorda il rumore prodotto dal picchiettare del legno sull’ago per bucare la pelle (era la tecnica principalmente utilizzata nell’antichità). Il significato del termine è appunto quello di “marcare con segni”, “scrivere sul corpo” ed è stato introdotto nel vecchio continente nel 1769 dal Capitano inglese James Cook dopo un viaggio di esplorazione delle popolazioni delle isole polinesiane.
La testimonianza più antica ci giunge dal confine italo-austriaco dove nel 1991, sulle alpi Otzalet, venne rinvenuto il corpo mummificato, ottimamente conservato dal ghiaccio, di un uomo che gli specialisti hanno datato a circa 5300 anni fa. Otzi, questo il nome con cui è stato registrato, presenta su varie parti del corpo dei veri e propri tatuaggi. Sono linee verticali di colore nero ottenuti sfregando carbone polverizzato su incisioni eseguite sulla cute. I raggi X degli scienziati hanno rivelato degenerazioni ossee proprio in corrispondenza di questi tagli, tanto da far pensare che tale pratica di tatuaggio fosse attuata in quel tempo a scopo terapeutico, per lenire i dolori.
Le pitture funerarie dell’antico Egitto mostrano tatuaggi sui corpi delle danzatrici, decorazioni rinvenute anche su alcune mummie femminili (2000 a.C.).
I Celti adoravano divinità animali quali il toro, il cinghiale, il gatto, gli uccelli e i pesci e in segno di devozione se ne tracciavano i simboli sulla pelle.
Presso gli antichi romani, che credevano fermamente nella purezza del corpo umano, il tatuaggio era vietato ed adoperato esclusivamente come strumento per marchiare criminali e condannati; solo in seguito, durante le guerre contro i Britannici che portavano segni tatuati come distintivi d’onore, alcuni soldati romani cominciarono essi stessi a tatuarsi sulla pelle i propri marchi distintivi.
Fra i primi cristiani era diffusa l’usanza di osteggiare la propria fede religiosa segnandosi la croce di Cristo sulla fronte. Successivamente, nel 787 d.C., Papa Adriano proibì l’uso del tatuaggio per i cristiani. Nell’undicesimo e dodicesimo secolo i crociati portavano sul corpo il marchio della Croce di Gerusalemme, poiché questo permetteva loro, in caso di morte sul campo di battaglia, di ricevere la dovuta sepoltura secondo i riti cristiani.
Nei primi anni del 1700 i marinai europei vennero a contatto con le popolazioni indigene delle isole del Centro e del Sud Pacifico, zone in cui il tatuaggio aveva un’importante valenza culturale. Infatti era nell’uso della popolazione tahitiana che le donne, raggiunta la maturità sessuale, fossero tatuate di nero sulle natiche.
Gli hawaiani, quando erano sofferenti, si tatuavano tre punti neri sulla lingua.
In Borneo gli indigeni si tatuavano un occhio sul palmo della mano come guida spirituale che li avrebbe aiutati nel passaggio all’aldilà.
A Samoa era diffuso il “pe’a”, tatuaggio su tutto il corpo che richiedeva ben cinque giorni di sopportazione del dolore come segno di prova di coraggio e forza interiore. Chi riusciva nell’impresa era onorato con una grande festa.
Ancora in Nuova Zelanda i Maori firmavano i loro trattati disegnando fedeli repliche dei loro “moko”, tatuaggi facciali personalizzati. Questi moko sono usati tutt’oggi per identificare il tatuato come appartenente ad una certa famiglia o per simbolizzarne le conquiste ottenute nell’arco di tutta la sua vita. Negli anni venti dell’Ottocento era diffusa la macabra usanza da parte degli europei di barattare pistole con teste tatuate di guerrieri Maori. Tanto si sparse questa efferatezza che, per far fronte alla continua domanda, i commercianti di schiavi arrivarono addirittura a far tatuare gli indigeni catturati in battaglia per poi ucciderli e venderne le teste. Solo nel 1831 il governo britannico finalmente dichiarò illegale l’importazione di teste umane.
In Giappone il tatuaggio era praticato fin dal V secolo a.C., a scopo estetico ma anche a scopo magico e per marchiare i criminali. È curioso sapere che la nascita dei bellissimi tatuaggi orientali che tutti oggi si conoscono è dovuta all’imposizione nell’antico Giappone di dure leggi repressive che vietavano alla popolazione di basso rango di portare kimoni decorati. In segno di ribellione iniziarono a diffondersi tra la popolazione debole enormi tatuaggi ornamentali che coprivano interamente il corpo.
È nel 1891 che l’inventore newyorkese Samuel O’Reilly brevetta la prima macchinetta elettrica per tatuaggio, rendendo improvvisamente obsolete le tecniche tradizionali, più lente e più dolorose. Negli anni Venti del Novecento alcuni circhi americani assunsero più di 300 persone tatuate da capo a piedi come attrazioni per il pubblico.
Per tutto il secolo i tatuaggi diventano marchio di minoranze etniche, marinai, veterani di guerra, malavitosi, carcerati (non possiamo non ricordare tristemente quelli di riconoscimento attuati dalle forze naziste nei lager di sterminio), considerati indici di arretratezza e disordine mentale. Solo negli anni ’70 e ’80 movimenti metropolitani quali i punk e i bikers adottarono il tatuaggio come simbolo di ribellione ai precetti morali predicati dalla società.
Che abbia una valenza puramente estetica, o che sia impresso a ricordo di un momento importante della propria vita, o ancora esprima la volontà di un ritorno alle origini, a valori antichi e profondi che la società moderna sembra avere dimenticato, il tatuaggio vive oggi un momento di grande rinascita, liberato finalmente (o quasi) dalla coltre di pregiudizi che da decenni lo macchiavano.

Per le strade di Sarajevo
È bella la vita dentro un catino?
Sarajevo 04/01/07. Raggiungere Sarajevo non è facile. Un’unica strada a due corsie si inerpica per i rocciosi Balcani costeggiando il fiume Neretva per più di cento Km. Il paesaggio è brullo, arido, selvaggio, affascinante; case in pietra di paesi incastrati nella nuda roccia sbucano a destra e a sinistra della strada; campanili e minareti sembrano sfidarsi nei cieli di questa nazione ancora religiosamente divisa. La povertà e le tracce della guerra si percepiscono nell’aria, abitazioni distrutte si alternano a case in costruzione e costruzioni incompiute; le distese di prati incolti sono rare perché gran parte dello spazio disponibile è stato adibito ai cimiteri musulmani, testimonianza evidente della violenza di un conflitto che ha decimato migliaia di famiglie. La strada si inerpica su per i monti, fino a raggiungere altezze considerevoli, l’aria è fredda e tutto intorno alberi e case sono ricoperti di neve; l’arrivo a Sarajevo mi coglie impreparato. Imprigionata in una valle e circondata dalle montagne, Sarajevo appare all’amprovviso immersa in una nebbia grigiolina causata dal troppo smog. In Bosnia, infatti, esiste ancora la cara vecchia benzina e le automobili con marmitte catalitiche sono l’eccezione piuttosto che la normalità. Agli occhi di chi non ha mai vissuto la guerra e di chi è abituato alle comodità e alla modernità delle capitali europee trovarsi ad attraversare la periferia di Sarajevo lascia strane sensazioni: sembra di esser tornati indietro nel tempo, quando il mondo era diviso in due blocchi – sovietici contro americani. La prima immagine che la mia memoria richiama è la Berlino anni ‘80 del film “Noi ragazzi dello zoo di Berlino”, vedo scorrere alla mia destra e alla mia sinistra le classiche costruzioni dell’architettura comunista - palazzoni grigi squadrati senza alcun fascino, anche le automobili – per la maggior parte Ford degli anni ’80 - sfrecciano all’impazzata in tutte le direzioni e tram color verde militare – regalo della Germania (in Italia non se ne vedono più da almeno vent’anni) - attraversano lentamente la città.
Non avevo mai osservato con tanta attenzione i muri e le facciate dei palazzi come a Sarajevo: fori di tutte le dimensioni decorano la maggior parte delle costruzioni (alcune sembrano vere e proprie groviere): in alcuni casi tracce di stucco bianco mascherano i segni dei proiettili, in altri non si è potuto applicare nessun rimedio perché sono crollate addirittura le fondamenta.
Costeggiando il fiume Miljacka si arriva al centro della città. L’architettura dei palazzi diventa più classica, gli enormi blocchi di cemento fanno gradualmente posto a costruzioni in stile Vienna, anche se i segni della guerra sono ancora evidenti. La via principale non ha niente da invidiare ad una qualunque via principale di una qualunque città europea: negozi di ogni tipo, ristoranti e caffè sono situati su entrambi i lati della strada; manca tuttavia nell’aria il tipico odore del McDonald’s che si trova in ogni via commerciale di ogni città europea. Scopro con mia grande sorpresa che a Sarajevo non esiste il McDonald’s, la ragione è semplice: non riuscirebbe a competere con il bassissimo prezzo del piatto tipico bosniaco – i cevapi. La via culmina in uno slargo al cui centro è situato un fuoco, una fiamma sempre accesa, memoria ai caduti della guerra; è inverno e la gente ne approfitta per scaldarsi. La camminata continua, in direzione Bašcaršija – la città vecchia. Ogni tanto passa qualche militare in divisa, l’ONU ha lasciato infatti ancora qualche contingente - altro modo per far sì che la memoria non si spenga - e così si vedono sfilare spagnoli, tedeschi e sloveni, dediti a fare shopping insieme alle rispettive mogli.
Ecco che di colpo la città cambia ancora, sono arrivato nella città vecchia: case basse dai muri in pietra bianca e dai tetti in legno e, a terra, blocchi di pietra irregolari compongono vie strettissime e affollatissime. La guerra fortunatamente ha lasciato intatta la città turca e così Bašcaršija può essere ammirata in tutto il suo splendore. Non sembra più Sarajevo, non sembra nemmeno di trovarsi in questo secolo tanto è stato conservato meravigliosamente il cuore della città; la moschea "Husrev-begova", la più importante costruzione islamica di tutta la Bosnia-Erzegovina, è il pezzo pregiato della città vecchia. Ai confini di Bašcaršija, lungo il fiume Miljacka si trova la biblioteca – meta della mia passeggiata - e forse icona di tutta la guerra. La biblioteca nazionale ospitata in un edificio moresco, fu bruciata per tre giorni e tre notti insieme al patrimonio inestimabile di libri che i serbi volevano annientare; gli abitanti di Sarajevo ricordano ancora le pagine incenerite che per giorni, spinte dal vento, volavano per le vie della città; anche qui la sensazione è forte, soprattutto se si ascolta il racconto da chi ha vissuto la guerra in prima persona e se si osservano gli occhi di chi ha vissuto la guerra in prima persona.
La passeggiata finisce mentre la neve inizia a cadere sulle strade e sui tetti di Sarajevo.
Sicuramente a livello turistico la capitale della Bosnia non offre monumenti maestosi, non richiama eserciti di giapponesi, non ha una vita notturna all’altezza di una Barcellona o di una Londra, ma quei fori sui muri dei palazzi, quelle macchie rosse per terra (segno delle bombe lanciate dai serbi), quei minareti imbiancati di neve, e soprattutto quella gentilezza di chi pur non avendo niente ti offre tutto, e quegli occhi malinconici di ragazzi molto più vecchi della loro età, rimangono stampati nel cuore e nella memoria più di cento Big Ben e Torri Eiffel.

Gli esseri umani finiscono in gabbia.
È nato in Australia Human Zoo, l’unico zoo per esseri umani.
È nato il primo zoo per esseri umani. Potrebbe sembrare una trovata per attirare turisti, in realtà si tratta di uno studio condotto dalla Dottoressa Carla Litchfield, psicologa e scienziata della South Australia University. Il luogo è lo zoo di Adelaide, in Australia, e lo scopo del progetto è approfondire le similitudini tra esseri umani e primati, raccogliere i fondi per la ricerca sul comportamento degli animali e per la costruzione della più grande “casa” per scimpanzé in Australia.
In che cosa consiste lo Human Zoo? Per tutto il mese di gennaio, gruppi di sei volontari si alterneranno nelle gabbie dello zoo, nutrendosi di banane e sopportando il caldo sotto l’attenta osservazione della psicologa. L’obiettivo della Litchfield è comprendere, attraverso l’attento studio del comportamento dei volontari, cosa deve essere migliorato nelle condizioni di cattività delle scimmie, ma anche ciò che accomuna gli esseri umani e i “cugini” primati, posti in condizioni di vita sperimentali - fuori dal proprio habitat naturale.
Il fine di questa ricerca non sembra essere del tutto sbagliato, tuttavia qualche critica può essere mossa all’idea di fondo del progetto, ovvero studiare il comportamento di un essere umano in cattività per compararlo a quello di un primate. Da un lato le scimmie antropomorfe si trovano nel gradino immediatamente più in basso di quello dell’uomo nella scala evolutiva - sono quindi più simili a noi di qualunque altra specie animale. Alcuni studi ed esperimenti hanno mostrato infatti che alcune scimmie in determinate situazioni esibiscono comportamenti e forme di intelligenza “umane” e inoltre sembrano dimostrare che l’intelligenza del primate può essere paragonata a quella di un bambino di quattro anni; comparare i comportamenti di un essere umano e di una scimmia antropomorfa nel momento in cui si trovano ad agire in uno stesso ambiente, può, in linea di principio, essere utile per gettare nuova luce su alcuni aspetti della cognizione sia umana che animale. Dall’altro lato però si ha l’impressione che più di un esperimento scientifico e di un progetto di ricerca si tratti di una semplice trovata commerciale: la psicologa Carla Litchfield deve in qualche modo interpretare i comportamenti dei sei volontari in gabbia, l’osservazione sperimentale deve essere guidata infatti da una teoria di base che favorisca la messa in luce di alcuni aspetti piuttosto che altri, altrimenti procederebbe alla cieca. Ma quali sono i criteri che guidano l’osservazione della Lichtfield? La psicologa è forse più interessata a risolvere alcuni problemi strutturali dell’habitat artificiale piuttosto che ad uno studio comparato uomo-scimmia? O forse la sua ricerca si basa unicamente su caratteri introspettivi, vuole analizzare cosa si prova a rimanere rinchiusi in una gabbia ventiquattro ore su ventiquattro sotto l’occhio curioso di turisti e visitatori? Quali indicazioni utili si possono trarre dal comportamento di uomo che si trova rinchiuso solo per una settimana (in tutta la sua vita) in tali condizioni artificiali?
Si scopre allora che Human Zoo è un gioco - una specie di reality show dal vivo - travestito da ricerca scientifica: i partecipanti sono in gara tra loro, il preferito dai visitatori può essere votato on line o con un sms, e il vincitore sarà premiato con il titolo di Super Human e un viaggio ad Honolulu.
L’idea di Human Zoo ha avuto il successo sperato, i volontari hanno attratto più di 8.000 visitatori e il sito web www.humanzoo.com.au ha fatto registrare un aumento dei contatti del 100%. Lo scopo del progetto è principalmente la raccolta di fondi per migliorare le condizioni di cattività delle scimmie; l’idea della Lichtfield, pur non poggiando su solide basi scientifiche, non è comunque da gettar via: la psicologa ha infatti dedicato gran parte della sua vita allo studio delle scimmie antropomorfe, sia in cattività che nel loro habitat naturale, è quindi giustificabile il fatto che abbia trovato un espediente commerciale per riuscire a realizzare i propri obiettivi, tuttavia è meno giustificabile il tentativo di definire Human Zoo un progetto di ricerca scientifica.

“È preferibile non viaggiare con un morto”, Henri Michaux
Sicuramente questo, che voglio qui proporre, non è uno tra i film più conosciuti nella storia del cinema; nessun riconoscimento, nessun premio vinto, poca pubblicità. Mi sorge il dubbio che la stessa critica cinematografica non ne abbia ricordo alcuno (magari neanche notizia). Ma è un film molto interessante per chi si ritrova nei sentieri naturali di un “nouveau noire” onirico, caotico ed esistenziale.
Dead Man è la storia del viaggio ‘conclusivo’ di un uomo che si ritrova in una terra fisicamente e spiritualmente a lui estranea, lontana miglia e miglia dalla sua realtà. Un viaggio interminabile attraverso tutto il nord America di metà Ottocento porta il giovane William Blake verso l’estrema frontiera occidentale americana. Ad accoglierlo una città posta, sia fisicamente che spiritualmente, al punto opposto della civiltà umana. È l’inferno quello che attende il protagonista, e lì, in cerca di fortuna e lavoro, trova la sua morte, come gli viene predetto sul treno dal macchinista. Ferito al cuore da un colpo di pistola e in fuga da sicari demoniaci, William Blake (un Johnny Deep del tutto nuovo) incontra uno stranissimo indiano di nome “Nessuno”. Questi crede che Blake sia il defunto poeta inglese (1757-1827) che ben conosce e ammira. Nessuno trascina il giovane in situazioni ora comiche ora violente, e lo accompagna spiritualmente attraverso tutto il percorso di allontanamento dalla vita, dal suo corpo, oltre quelle “doors of perception” che il poeta visionario omonimo poneva davanti alla realtà infinita delle cose, dello spirito. Le circostanze fanno di lui, contrariamente alla sua natura, un fuorilegge ricercato e un assassino, mentre la sua esistenza fisica diviene sempre più labile. Scaraventato in un mondo crudele e caotico, a lui del tutto estraneo, come nel viaggio dantesco nell’oltretomba, il giovane Blake prende coscienza della fragilità che caratterizza il mondo dei vivi, delle loro ristrettezza di veduta, della loro crudeltà e del loro stretto legame con la materialità.
L’uso del bianco e nero rende il film ancor più imperniato di un velo di spiritualità e colloca la storia perfettamente all’interno di un mondo buio, violento e tragico. Afferma il regista Jim Jarmusch, autore di Stranger than paradise (‘84), Daunbailò, Mistery train, Tassisti di notte (‘91), Coffee and cigarettes (‘99):
«La ragione principale di tale scelta è che la storia parla di un uomo che fa un viaggio in un luogo dove non trova nulla di familiare. Il colore, soprattutto nei paesaggi, ci collega direttamente alle cose perché ne riconosciamo l’aspetto, perciò avrebbe compromesso l’elemento fondamentale della storia». Nel percorso di tutto il film c’è un cammino in allontanamento da quello che è il mondo materiale, che in realtà davvero non si conosce, verso un mondo che ne è agli antipodi. La scelta stessa del genere “western” non è stato un caso, come conferma il regista:
«Il Western è un genere buono per la metafora, ha radici profonde nelle forme narrative classiche. Spesso le storie raccontano di viaggi in posti sconosciuti e ignoti, e ruotano attorno a tematiche tradizionali come il castigo, il riscatto, la tragedia. Sono queste caratteristiche unite all’imprescindibile legame del Western con l’America nel senso più ampio del termine ad attrarmi a questo genere. Ma Dead Man non è un “western” tradizionale in effetti, il genere è stato solo un punto di partenza». Dead Man è la storia di un uomo che affronta il mondo circostante e, soprattutto, si confronta con se stesso e si confronta con la propria morte: è la storia della vita di un “uomo morto”. «La morte è l’unica certezza della vita e ne è allo stesso tempo il più grande mistero. Per Nill Blake il viaggio di Dead Man rappresenta la vita, per Nessuno è una continua cerimonia il cui scopo è riconsegnare Blake alla dimensione spirituale. Per lui lo spirito di Blake è finito nel posto sbagliato e in qualche modo è rientrato nella sfera della materialità. L’idea dell’indiano Nessuno che la vita è un ciclo senza fine è essenziale alla storia», chiarisce Jarmusch. La scelta di citare il personaggio di William Blake è dettata dalla vicinanza del poeta alle tematiche spirituali, visionarie e religiose presenti nella cultura delle popolazioni originarie del Nord America. Lo stesso regista dice: «Non so dare una motivazione precisa del perché tale scelta di soggetto. Posso solo dire che mentre leggevo libri degli indiani d’America sul pensiero degli indiani d’America, sono stato colpito dal fatto che molte delle idee e degli scritti di Blake sembravano usciti dall’animo di uno di loro. Questo è vero soprattutto per i “Proverbs from Hell” che sono citati dall’indiano Nessuno lungo tutto il corso del film».

ROCKY BALBOA
"E' la tua opinione che conta" dice una donna a Stallone, "e allora combatteremo", risponde Rocky. Deve averlo pensato veramene Sly prima di avventurarsi in un progetto tanto rischioso, quanto riuscito. Ma chi me lo impedisce? Si sarà detto. E come pensare il contrario, quando si è il più grande incassatore di colpi della storia del cinema. E infatti nasce dall'esigenza di una bella scorpacciata di cazzotti lo stimolo che porta Rocky a tornare al cinema, e di conseguenza a tornare sul ring; nonostante l'età (durante una conferenza stampa Rocky si becca la divertita denominazione di "Balbosauro"), nonostante la lunga inattività, nonostante il sarcasmo e l'ironia suscitate dalla perplessità degli esperti (siano essi critici cinematografici, o i loro alter ego allegorici, i giornalisti sportivi del film), nonostante la maladisposizione dei suoi conoscenti e la diffidenza delle istituzioni (sportive), Rocky ci riprova. Non può stare senza boxe. Soprattutto ora che si trova senza moglie (la famigerata Adriana è defunta) e senza affetti (il vecchio Paulie è allo sbando, il figlio non sopporta più il peso del proprio cognome). Soprattutto ora che l'America ha bisogno di un esempio di virtù, di coraggio e personalità, di speranza e umiltà, Stallone si ripresenta nelle sue vesti di icona.
Rocky è ormai un oggetto del passato, e, come tale, la sua vita contemporanea è completamente tesa nella memoria di esso, ed è dimentica delle esigenze del futuro, senza prospettive; così l'America, che il personaggio di Stallone ha rappresentato durante la guerra fredda, intestardita in uno contro uno che ha finito per sconfiggere l'avversario russo, il nemico per eccellenza (Ivan Drago), e che, dopo, senza avere il contrappeso adatto, ha perso il controllo della bilancia dell'ordine, perdendo di conseguenza la fiducia nel futuro (nel V episodio della serie, Rocky non riesce a trasmettere la sua esperienza alle nuovi generazioni, e abbandona sport e schermi). Il nuovo millennio vede Rocky nei panni di ristoratore e narratore di gesta epiche (le proprie). Ormai fuori dai meccanismi del business, dello sport, della società. Da questo punto di partenza, Stallone ha scritto, diretto e interpretato, un film inatteso, ma essenziale, intriso di retorica, cullato da sentimenti semplici, ma sinceri, e carico di un ardore unico, inconsueto; un film che esige totale umiltà da parte dello spettatore; e che mostra, senza patemi, una tenera, e lontana dal banale, urgenza di espressione; di comunicazione. Stallone, ormai svincolato dai propri personaggi secolari, è tornato a indossarne i panni gloriosi e antiquati, prosciugando le pretese di spettacolo, insite nel gioco cinematografico, e riversando tutta la sua passione, la sua inopinabile lucidità, nell'analizzare la natura ingenua e mortale dell'iconografia hollywoodiana.
Dunque, con intenzioni più che positive, Stallone allestisce con cura il suo gioco di specchi fra finzione e realtà, fra cinema e vita, fra Rocky e l'America.
La tecnologia. La nuova tecnica, spogliano Rocky della sua gloria, rinchudendone in cantina l'immaginario filmico, e lasciando ai posteri solo una fantomatica leggenda di trasmissione orale. Così il nuovo stile di boxe, il nuovo stile di vita, la nuova società del consumo spasmodico, il nuovo mondo dei computer, dei videogiochi e della simulazione, rifiutano categoricamente di credere ancora alle favole; un vecchio lento corpulento non potrà mai giocarsela alla pari con un giovane in un mondo così veloce e frenetico, tutto impegnato ad evitare e schivare i colpi e il dolore.
Rocky ha bisogno di dimenticare. Di trasferire le proprie paure e le proprie sofferenze dal passato al futuro. Spingerle sempre più lontano fino all'adilà e oltre. Togleirle di impaccio dal proprio cammino. Rocky vuole solo essere costretto a reagire. Costretto a soffrire nel fisico. Ad abbandonare la mente e i suoi affanni.
E allora torna sul ring per sfidare la nuova promessa della boxe, uno sfacciato, spaccone, campione, che ha vinto tutti gli incontri in carriera (33 su 33), ma che non ha vinto la diffidenza del pubblico, al quale non concede incontri più lunghi di trenta secondi. Per dare nuovo smalto ad uno sport in crisi di ascolto (e il cinema non se la passa poi tanto bene) un paio di furbi manager convincono Rocky ad affrontare il ragazzo in un incontro che faccia storia (ovvie le perplessità di Rocky, degli esperti, del pubblico, e forse soprattutto di Stallone).
Sly non vuole fare la storia, pure perchè lui l'ha già fatta, vuole solo un nuovo scossone, un nuovo stimolo; gli sbeffeggiamenti e gli insulti gli rimbalzano contro, così come le scazzottate del nemico; e più forti si fanno i colpi e più pesanti si fanno le offese, più il cuore di Rocky pompa entusiasmo e brama di libertà; più è il sangue che gronda a tappeto, più è dolce il futuro che lo attende; più sono i gong, più sono gli applausi, fin quando l'incontro non finisce e tutti si alzano in piedi, trionfanti nella partecipazione collettiva ad uno scampato massacro e alla vittoria dei buoni sentimenti, e Rocky finalmente rincojonito a dovere torna a significare qualcosa. Per l'America e per il cinema.

NEW YORK (PARTE SECONDA)
Inebriati dal fragrante odore di anno nuovo, e fomentati dalla fragrorosa speranza di una vita nuova, smettiamo per un mese (di transizione) di occuparci di musica elettronica datata, di vecchi groove che si mantengono in vita a stento, di rivoluzioni generazionli che non sempre fanno parte dei nostri cromosomi. Dopo aver analizzato la nascita dell'elettronica americana nell'east coast, e lo svilupparsi di alcuni fenomeni di massa come l'hip hop e la sua cultura di strada, per questa volta mi limiterò a raccogliere i frutti del seminato, favorito dalla contemporanea uscita di una serie di dischi che guardano molto da vicino alle nostre precedenti analisi e danno una fugace immagine di un 2007 che si appresta ad essere molto, ma molto "house oriented". Fermiamoci perciò un mese in più a New York, dove i locali sono in fibrillazione, dove l'hip hop ha stufato, e la gente ha bisogno di nuovi messaggeri di amore, di nuovi Cupido che usino i bassi come frecce e trafiggano il cuore del melting pot mondiale. Prima di approdare in Europa, dove viaggeremo comodi e rilassati nelle prossime puntate, volgiamo lo sguardo e prestiamo l'orecchio per un'ultima volta all'America, dalla quale ci allontaniamo lentamente a bordo di una confortevole nave da crociera.
ABE DUQUE
Come detto, questa volta parlerò di attualità. Eppure Abe Duque non è certo un novellino. Nato in Ecuador, gira per i locali di New York, come Dj, da ormai una quindicina di anni. Anni in cui ha operato dietro macchine e giradischi misconosciuto alla massa Refrattario di fronte alla promozione e alla sovra-esposizione del suo operato, si è distinto per la decisa mancanza di interesse per l'industria discografica, per il marchindising e la pubblicità, non solo quella forzata ed estrema. Abe Duque è sempre stato l'uomo dell'undergroung, l'incarnazione dell'underworld delilliano, portatore di differenze, mancanze, vizi e virtù del dopo guerra fredda. Per anni ha dato alle stampe dischi, senza mai sforzarsi di facilitarne la reperibilità, celato dietro nomi improbabili e distanti dalle icone mainstream (cose tipo Rancho Relaxo Allstars), limitandosi a mantenere viva la voglia di semplicità. Non solo musicale. Ma soprattutto spirituale.
Abe è un appassionato di Chicago House, ma il suo suono vibra anche di impazienza techno, di spazi e dimensioni alternativi al reale, che condividono la loro innata freddezza con la calda voglia di dance, un suono che prolifera come alieno, ma che si distingue come essenza della forza della natura. Abe è un collante fra possibilità tecnologiche e possibilità umane. Abe è il tramite, è l'amico fraterno di tutti che dialoga per mantenere la pace duratura, e che spinge e insiste perchè il connubio sia dolce e rilassato. Lo spirito è house, la tecnica è techno. La mentalità è underground (hip hop). Abe è la sintesi dell'america elettronica. Fatto sta che passa gli anni ‘90 senza infamia e senza lode, senza fama e senza frode. New York predilige suoni più cruenti, fin quando nel 2001, la cruenza raggiunge livelli esasperanti, soprattutto a livello personale per gli abitanti della città. Le due torri che crollano, le fiamme, ancor di più le ceneri, i cadaveri, il fumo e la nebbia, la desolazione: UN LUNGO MOMENTO DI RIFLESSIONE. E poi... le dichiarazioni di guerra.
Abe è un abitante di New York; Abe soffre come gli altri; un folle innamorato della Grande Mela; incazzato, ma non rassegnato. La guerra come reazione è la goccia che fa traboccare il vaso; la pazienza, virtù divina, può essere messa da parte, lasciata nell'Underground. Il corpo ha bisogno di emergere in superficie, portatore di onde di suono che sono amore e passione, che promuovono strette di mano e dialogo, che spingono ai margini della città l'aberrazione e l'alienazione. Abe è pronto a rispondere alla classe politica americana. Nel 2003 è in cabina di regia a produrre il disco di Dj Hell (storico nome dell'elettronica tedesca di casa a New York) "NY Muscle", il muscolo di New York che altezzoso e minaccioso pretende di assumere il controllo e prendere tutte le decisioni, gradite e non. Abe fa il suo sporco lavoro, con i fiocchi, e il disco di Hell sfreccia nel panorama discografico elettronico come la Ferrari di Schumacher. Hell è possessore di un'etichetta di livello e invita il buon ecuadoregno a mettere insieme il meglio della sua carriera e tramandarlo ai posteri grazie a una distribuzione che possa essere coerente, decente e proficua. Abe ci mette poco a compilare il best of dei suoi ultimi lavori: il disco prende il nome di "So underground it hurts" (esce nel 2005 per la Gigolo), titolo che dimostra la voglia di Abe di uscire da una situazione di stallo in cui aveva deciso di porsi e dalla quale vedeva fruttare decisamente poco. Così lontani dalla superficie fa male, molto male, soprattutto quando ti ritrovi in un momento della vita nel quale vorresti poter urlare ed essere in grado di sfogare a dovere la continua repressione attuata nei confronti delle tue idee. Il disco è un bomba assoluta. Il meglio in termini di house dall'inzio del millennio. Abe dopo pochi mesi di notorietà e molti anni di gavetta entra a far parte della storia della musica elettronica. Al suo fianco si cimenta nelle parti cantate di alcuni brani una voce storica della house di Chicago come Blake Baxter (che in cambio del favore si vedrà prodotto il successivo disco dal nuovo maestro newyorkiano "Poetry and Rhythm"); la traccia che manda in orbita l'album è "What happened?", retrospettiva storica sulle origini della passione per la musica elettronica, e ancor più per i suoi significati generazionali, nella quale Blake, stranulato, rap-poetizza la vaghezza della sua coscienza di sè e le poche certezze che si riassumono nell'innato amore per grooves, masse e flussi (di informazioni, emozioni, sentimenti, cedimenti, migrazioni), flussi che rappresentano il moto più intimo del globo e dei suoi abitanti. La musica di Abe è cruda ed essenziale, incentrata sull'epica narrativa del ballo, con un forte imprinting garage derivante dal desiderio di mantenere costante nella mente dell'ascoltatore l'idea di un live act; il lavoro di sampling risente note volmente della passione per il sound da vinile, e l'attenzione sull'accoppiata basso batteria che si riscontra nell'equalizzazione delle frequenze ne determinano un'identificazione fra i generi di elettronica quale Tech-House. La gente si risveglia e si chiede "New York, ma che cazzo è successo?". La risposta è semplice: Abe Duque è uscito dal letargo, è emerso dal sottosuolo, come un Godzilla sorridente e con i baffi, si è messo a scratchare i suoi perchè e a sminuzzare i suoi percome, presentandoci una sintesi degli anni a venire che ribolle delle viscere dell'underground di New York.
Alla fine del 2006, Abe ha pubblicato il suo secondo disco, mantenendosi in perfetta linea retta con il precedente lavoro, continuando a cesellare i materiali old skool techno e house, con particolare attenzione sui livelli acidi chicaghiani di quest'ultima, e continuando anche nella sua collaborazione con Blake Baxter. Il disco si chiama "When the fever breaks", e possiede brani di grandissima classe e potenza, sia fisica che spirituale, con i venti minuti della title track che trasmettono uno stato di assoluta trance sonora, aiutato in questo dal supporto di un vecchio collabortatore come Gene Le Fosse (suo compagno all'inizio della carriera nei Program 2). La strada è stata intrapresa a passo spedito, e ora chi lo ferma più ad Abe Duque?
L'ANNO DELLA GARAGE HOUSE
Abu Duque ha dunque riportato in auge New York come casa madre di un nuovo suono elettronico, che si avvale della storia elettornica afroamericana per riavvicinarsi al resto del mondo. Il crossover, in elettronica ha come sinonimo Garage. La Garage house, fenomeno che spopola nel 2006 a New York, anche grazie alla vitalità di dj quali Quentin Harris, Dennis Ferrer e Mr. V, è il nuovo genere di musica suonata nei locali. Il nuovo afflato di freeform musicale che si proietta nel nuovo anno come la vera alternativa alla stanca e stancante electro teutonica. Gennaio 2007 è caratterizzato dalle uscite discografiche dei tre ragazzi appena menzionati, che con la loro tempestività e contemporaneità affermano vigorosamente la fame di successo e la smania di predominio.
Quentin Harris è di Detroit, ma fino all'approdo a New York, è un appassionato di hip hop, ancora non troppo ambizioso. L'impatto con la scena garage di New York, in particolare con i dj set di Danny Tenaglia e Junior Vazquez, sconvolgono l'animo del ragazzo, che nella cultura clubbistica sente di aver trovato la propria luce, la maschera che ne riproduce i tratti somatici a perfezione, l'unica che lo faccia sentire veramente sè stesso. Per Quentin la "House è un ombrello, e tutti i generi si trovano sotto questo ombrello", la sua musica non sfugge alla canonicità dell'imprevidibile che è insito nel termine house, e nella sua origine. Il primo brano che dà alle stampe è Let's be young (2005), nel quale privilegia il formato ‘canzone’ dando un profumo di rinnovamento alla classicità del sound, l'obiettivo è quello di non lasciare che New York perda la propria identità musicale; a New York sono sorti i primi club di dance music, dove Larry Levan faceva impazzire le folle del Paradise Garage; ma poi ci sono stati l'hip hop, l'11 settembre, la paura, il disiorentamento. Quentin sente il bisogno di ricostruire la tradizione per mantenere vivida e chiara l'immagine dell'identità, delle radici, "creare le premesse perchè (noi che facciamo house) si possa tornare a dialogare con l'industria discografica". Il disco uscito da poco si chiama "No politics". All'interno spiccano i tre brani strumentali, che sono apoteosi di contaminazione, con meravigliose tinte jazz che cospargono l'arcobaleno sonoro di miriadi di soli luminosi che muovono il corpo e l'anima dell'ascoltatore fino a seducenti visioni di paradisi caldi ed accoglienti, luoghi ancora mai avvicinati dalla musica elettronica, che in tracce come Haunted incontra nuove dimensioni extrasensoriali, impercettibili frantumazioni di ogni forma di desiderio, ed agognate esplosioni di ansie e tormenti.
A dare una mano al progetto di ristrutturazione e riproposizione della tradizione house newyorkese profilato da Quentin Harris, arrivano le uscite di Dennis Ferrer e Mr. V, rispettivamente "The world as i see it" e "Welcome home". Dennis Ferrer si denota per lo smisurato eclettismo del suo stile, che pieno di suggestioni etniche spesso incontra anche deep techno e ambient. E' comunque la house il genere nel quale rifulge la sua massima capacità espressiva, nella quale si accosta molto alle sonorità dei Blaze, un gruppo di elettronica molto debitore del linguaggio soul, per i quali ha remixato Most precious love nel 2004, brano grazie al quale ha iniziato a costruirsi un nome. Una volta all'interno del giro giusto, Kerri Chandler lo ha preso sotto la propria ala protettrice e gli "ha fatto capire che in un disco la cosa importante è la cadenza, un pezzo house deve farti muovere la testa al punto che non realizzi neanche che lo stai facendo", lo ha, bene o male, educato, svezzato. Finito il tirocinio, una volta note le possibilità della house, Ferrer ne ha esplorato ogni meandro alla ricerca della perfezione, sempre in nome della fedeltà. Evidente come nell'approccio "purista" venato di etnicità Dennis Ferrer trovi un'identificazione maggiore con il sound degli anni 90, di nome tipo Masters at work, Frankie Feliciano, Jovonn.
Victor Font, in arte Mr. V, è un ragazzo di Manhattan, che ha iniziato a maneggiare dischi alla tenera età di 14 anni, ha viaggiato in giro per il mondo alla ricerca di opportunità, fin quando, l'anno scorso, il suo nome è esploso grazie al featuring vocale che ha amichevolmente inciso sul brano di Louie Vega V gets jazzy. Victor è pronto a liberare le sue passioni, e inizia a produrre pezzi in continuazione, sfruttando le sue capacità di rapper, e la sua passione per la house; ampliando anche a generi nemici la copertura dell'ombrello house, Mr. V dà la possibilità alla nuova garage house di prendere lo scettro del potere; il garage nel suo istinto di genere crossover, ha l'esigenza di passare attraverso tutto ciò che permea una cultura, e nel caso degli afroamericani, l'hip hop ne è ormai parte integrante, se non addirittura preponderante; Mr. V è il lato anarchico della nuova scena dei club new yorkese, è lo spirito libero, non proteso verso l'alto come Quentin Harris, ma esteso in un abbraccio immenso, a disposizione del popolo, è il lato più pacifico e diplomatico, che vede in New York lo specchio del mondo e nell' 11 settembre un'occasione per migliorare. Il suo disco "Welcome Home", in questo senso, non perde l'occasione di abbracciare tutti i generi che rientrano nelle sue corde, e lo fa con grande controllo dei limiti che servono per mantenere comunque omogeneità. Deep e jazzy nel profondo, hip e house in superficie; Mr. V ci ospita nella sua terra e ci racconta le sue radici con garbo ed energia, un importante alternativa alla ormai rabbiosa e dispettosa accoglienza di un paese in cerca di identità.
DISCOGRAFIA CONSIGLIATA
Abe Duque -So underground it hurts- (International Deejay Gigolo Records, 2005)
Abe Duque -When the fever breaks- (Abe Duque Records, 2006)
Quentin Harris -No politics- (2cd Pony Canyon, 2007)
Dennis Ferrer -The world as I see it (2cd Defected, 2007)
Mr. V -Welcome Home- (Defected, 2007)

COMMANDO ULTRÀ CURVA SUD
1977-2007: trent’anni fa nasceva uno dei gruppi storici del tifo romanista
Il 9 gennaio di trent’anni fa fu esposto per la prima volta, a coprire uno dei muretti della Curva Sud dello stadio Olimpico, uno striscione rosso lungo ben quarantadue metri, che portava su scritto a parole cubitali: COMMANDO ULTRÀ CURVA SUD. Era lo striscione distintivo di quello che sarebbe divenuto, di lì a poco, uno dei gruppi storici del tifo romanista, se non anche una delle pietre miliari nella tradizione del tifo organizzato.
Portatore di una nuova concezione di passione calcistica, o meglio cantore di un ‘amore’ totale e indiscutibile (uno dei motti principali del Commando recitava proprio “la Roma non si discute, si ama”) nei confronti della propria squadra del cuore, della sua maglia e dei colori della squadra giallorossa.
Da qualche anno oramai il CUCS si è fatto da parte; un passaggio di consegne naturale e ovvio per la legge del tempo, perché “the times they’re a changin”, come ripeteva una canzone di Bob Dylan. Al suo posto si sono fatti avanti nella curva romanista nuove realtà, totalmente differenti, nuove guide, nuove generazioni, e magari anche nuovi valori. Nessun giudizio, nessun confronto, solo epoche diverse, diversi contesti sociali, generazioni differenti. Ma prima di lasciare quel suo vecchio muretto, il CUCS è stato capace di insegnare al mondo delle tifoserie (quanto meno) come si è ultrà: dai mitici tamburi ai bandieroni giganteschi sventolati sotto la curva, dai cori continui e instancabili alle coreografie spettacolari grandi quanto tutto lo stadio.
Ormai per alcuni una nostalgia, qualcosa che continua ad esistere solo nella mente.....vecchi ideali o vecchi ricordi. La curva, il gruppo, gli amici, ogni domenica tutti insieme già prima della partita: «C’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere, in cui ti sentivi parte di una comunità mai vista prima», ricordano alcuni. E quella comunità era stata capace di sopravvivere al suo contesto, era come un sogno vissuto in una realtà cupa e “di piombo”. La curva si riempiva come sempre, si stava tutti insieme a cantare, ragazzi disparati, padri di famiglia, donne. Nessuna teoria socio-politica, nessuna ideologia, solo tanta passione. «C’erano i ragazzi degli anni Settanta, figli dei Sessanta, anni in cui iniziava la contestazione, contro padri e padroni, sistemi e convenzioni». Erano anni di lotta politica e di guerriglia sociale. «Ma tutto questo restava fuori dai cancelli dello stadio, fuori dal gruppo. Dentro si respirava un senso di aggregazione, socializzazione, ribellione; valori tirati fuori in strada, la voglia di cambiare e, soprattutto, di stupire. Soprattutto di stupire chi non capisce (e neanche all’epoca capiva) come un ragazzo di destra e un altro di sinistra, proprio in quegli anni lì, separati da tanto per la strada, si ritrovavano dietro un megafono a far cantare e a cantare, uniti dietro quello striscione: COMMANDO ULTRÀ CURVA SUD». Perché “la Roma è uno stato mentale”, dicono ancora quei ragazzi. Ed erano uniti dal loro amore per quella maglia, sotto quei colori. Il Commando Ultrà era un popolo unito, una comunità, un segno di riconoscimento; «non importava chi fossi, cosa pensassi o cosa facessi, bastava il sentimento». E ce n’erano molti, «alcuni solo un numero, una voce, un tamburo, un fumogeno, una torcia; il ricco e il “borgataro” a cantare fianco a fianco, con la voglia di conquistare il mondo, con la Roma nel cuore». Perché il CUCS riproduce “er popolo, no quello der cortello, ma quello che fatica fra mazzo e l’allegria”. «Era una comunità che si ritrovava ogni volta, che aspirava alle stesse cose, che realizzava se stessa soltanto nella contemporanea realizzazione degli altri. Quando l’abbraccio era abbraccio e il calcio tutta un’altra cosa: era più vero». Il Commando era una di quelle cose che sembrano esserci da sempre e hai l’impressione che non possano finire mai. “Era il tempo in cui il popolo è stato al potere e con quel potere ha detto «ti amo»”.

Il male del calcio
La denuncia di Simone Brunelli, da giocatore a semplice plusvalenza
È sicuramente scontato affermare che l’Italia è un paese calciofilo. Il gioco del calcio monopolizza ogni domenica qualunque strumento d’informazione, qualunque chiacchiera al bar, a scuola, al lavoro e su internet. Il gioco del calcio monopolizza quotidiani e telegiornali sportivi dal lunedì alla domenica; il gioco del calcio abbraccia tutti dal politico all’operaio, il gioco del calcio è esigente, per essere spettacolare ha bisogno di tanti soldi, li vuole dalle tv, dalle multinazionali di abbigliamento sportivo, dalle industrie automobilistiche, li vuole dal governo e dal coni, ne vuole così tanti che sembra non gli basti mai. Se il gioco del calcio è così ingordo, è necessario che chi ne fa parte attivamente si adatti, rispetti i suoi capricci ed esaudisca i suoi desideri a qualunque costo e in qualunque modo, legalmente e illegalmente. Lo sanno bene i vari Carraro, Cragnotti, Tanzi, Gaucci, Moggi, Giraudo, Galliani, Della Valle e Lotito, povere vittime di un gioco troppo ambizioso.
Quest’estate, dopo che il diabolico mondo di “Moggiopoli” è venuto finalmente alla luce e dopo che la misteriosa “cupola” è stata smascherata, il gioco del calcio a molti non è sembrato più tanto gioco. Forse a causa della sua ingordigia il gioco del calcio si è spinto troppo oltre dimenticando le proprie origini di sport e tendendo sempre più verso il business e l’entertainment. Se per anni è stato tutto pilotato, progettato, combinato cosa distingue il calcio da uno “sport” come il wrestling, in cui tutto è predefinito a tavolino prima che lo show abbia inizio?
Fortunatamente dopo l’estate che ci ha consacrato campioni del mondo, il gioco del calcio è sembrato rinascere. Un soffio di aria nuova ha punito i “cattivi” o “colpevoli” o “vittime del sistema” (come ad alcuni piace autodefinirsi). La colonna portante del gioco è stata riorganizzata, le gerarchie riformate e così pure la federazione e tutta la classe arbitrale. Per alcuni mesi è prevalsa un’aria di ottimismo, si pensava: «finalmente il gioco del calcio è tornato ad essere gioco del calcio», ovvero un gioco fatto da due squadre che si affrontano su un campo, non importa poi che lo scandalo di “calciopoli” abbia contribuito al vertiginoso abbassamento di qualità del nostro campionato, finalmente si può essere sicuri che tutto ciò che accade nel rettangolo verde è trasparente al 100%: dall’errore arbitrale, ai comportamenti dei giocatori, al risultato di alcune partite.
L’ottimismo però è durato poco tempo e i più ottimisti sono stati i primi a denunciare che «rispetto a calciopoli nulla è cambiato!». L’errore arbitrale imputato dapprima all’inesperienza della nuova classe arbitrale è ora attribuito a nuovi complotti formatisi nel era del dopo-moggi, ma la cosa più grave è che nuovi scandali stanno venendo pian piano a galla. I protagonisti sono in parte cambiati, ma alcuni rimangono gli stessi, perché il gatto perde il pelo ma non il vizio. Così il gioco del calcio che si credeva ripulito in tutti i suoi angoli nasconde ancora molti scheletri nell’armadio.
Il nuovo scandalo porta ancora una volta il nome di doping amministrativo e coinvolge alcuni giocatori dell’Inter e del Milan. Si tratta di giocatori sconosciuti - la maggior parte sono giovani un tempo considerati di belle speranze - si chiamano Brunelli, Varaldi, Ferraro, Deinite, Toma, Giordano, Livi e Ticli e i loro nomi sono stati usati per coprire i buchi finanziari lasciati dall’acquisto di grandi campioni. Inter e Milan hanno sfruttato questi giovani giocatori per creare quelle plusvalenze necessarie per avere un bilancio sano, ma al tempo stesso hanno “stroncato” la carriera di questi giovani. Due esempi: Marco Varaldi ha 24 anni, Simone Brunelli 23. Entrambi portieri. Nel 2003 il primo passò dall’Inter al Milan, il secondo fece il viaggio inverso. Varaldi venne valutato 3,5 milioni di euro, Brunelli 2,9. E’ lo stesso valore che hanno oggi: il primo è riserva nel Lecco (serie C2), il secondo non potrà più giocare a causa di un brutto infortunio a una spalla. Entrambi sono però ancora "di proprietà" delle due società milanesi fino al 2008 e guadagnano 2.600 euro al mese. Varaldi con il passaggio al Milan guadagnò tre anni di contratto, per questo motivo non si pose troppi interrogativi circa la scelta dell’Inter di cederlo; Simone Brunelli invece comprese tutto sin da subito, quando, tornato da una vacanza in Sardegna si ritrovò all’Inter dopo che la sua firma era stata falsificata, e lo stesso Brunelli è il giocatore che, con le sue denunce, ha dato il via alle inchieste in corso. Il giocatore sostiene infatti che l’Inter non lo ha curato bene dopo l’infortunio alla spalla che gli ha troncato la carriera, e ora si considera prigioniero: non può riscuotere i soldi dell’assicurazione perché la società nerazzurra non ammette che non potrà più giocare; e non può lavorare perché risulta ancora un calciatore in attività, intanto l’Inter continua a mettere a bilancio il "presunto" valore di Brunelli: 2,9 milioni. Anche se non ha futuro.
Un nuovo capitolo si aggiunge al vastissimo repertorio di intrighi, complotti, imbrogli e doping di vario genere che lentamente stanno avvelenando il gioco del calcio, eppure l’Italia continua a rimanere un paese calciofilo. Cosa importa se Milan e Inter truccano i bilanci rovinando la carriera a giovani giocatori? L’importante è che Totti e Mancini si siano abbracciati dopo un goal segnato, o che finalmente Oddo e Ronaldo si siano trasferiti al Milan. In fin dei conti il gioco del calcio è questo: business ed entertainment. È quindi importante che lo spettacolo, o meglio la telenovela, continui, prima che gli spettatori si stanchino.
domenica, novembre 05, 2006
Massimiliano Matarazzo
Storia Magistre…
“Quando per esempio un Greco si recava a Babilonia, Zeus e Apollo passavano in second’ordine e egli si sentiva tenuto a rispettare specialmente gli dei indigeni. È questo il significato che avevano gli altari con la scritta : “Agli dei sconosciuti ”…” [Oswald Spengler - Il tramonto dell’occidente.]
- Più di un autore, parlando della storia, ha speso parole o anche libri interi per cercare di dimostrare come questa risulti essere a volte “un non so che” di circolare, di eventi che tendono ad inseguirsi e ripetersi, a ripresentarsi nel tempo, a distanza di secoli magari, con caratteristiche simili, con forme quasi uguali tra loro. Da storici veri e propri quali Spengler e Toynbee, a filosofi dai caratteri Nietscheani di fama più o meno internazionale, abbiamo avuto spesso quasi una raccolta di avvenimenti o episodi che possano avvalorare idee e tesi che confermino tali teorie. Spesso questi pensatori usano accostare avvenimenti potenzialmente simili tra loro, ad idee però, bisogna dirlo, di comparazione più vaghe che ovvie.
Lungi da me in questa sede accanirsi contro gli autori di una tale e coraggiosa teoria, ma anzi appare curioso cercare di spiegare come provando a leggere ed interpretare quelli che sono questi nostri anni, non si finisca per trovare impronte familiari con gli anni dei secoli passati della caduta di uno dei più grandi, e forse più duraturi, imperi di tutti i tempi, quello Romano.
Sicuramente più di uno di questi studiosi avrebbe preso gli avvenimenti, anche quelli più recenti della nostra storia, per avere una ricchezza di esempi a sua propria disposizione certo che la loro quantità non risulta indifferente, e certo del fatto che sommariamente questi si prestano molto bene alla causa. Come un grande filone d’oro nel selvaggio west, il miraggio di un così semplice paragone infatti può saltare agli occhi anche ai più scettici o miscredenti.
Durante la caduta dell’impero romano, che mai come in questo caso è da ricordare come un processo lento di decenni, di qualche generazione anche, e non certo effetto di un singolo evento come una guerra o magari un atto di insubordinazione o cose di questo genere, durante la caduta dell’impero romano dicevamo, l’erosione lenta dei suoi sistemi ben consolidati di mantenimento del potere costituito può essere ridotta, in maniera molto riduttiva e quasi semplicistica, a tre cause politiche ben precise forse un po’ meno note. La prima era dovuta ad uno spostamento, ad una ricerca meglio, dei popoli oltre confine, di ricchezze più “visibili” o immediate di quelle di cui gia usufruivano: vuoi terre, vuoi bottini, vuoi donne e bestiame, cose che li spinse in maniera sempre più marcata e determinante a premere sui confini dell’impero. Insomma la prima causa erano certo le così dette invasioni barbariche.
Il secondo innegabile fattore, che si venne a scoprire piuttosto nel tempo più che risultare agli occhi palesemente come il primo, era una lenta ma sempre più notevole unione, per osmosi potremmo dire visto il fatto che veramente si poteva percepire solo a distanza di lunghi anni, un’unione tra le popolazioni di confine e quelle che al di qua del confine gia vivevano. I popoli che infatti non potevano, per ricchezze e potenza o solo perché non erano in grado per disorganizzazione, condurre guerre durature e continue contro il nemico romano cominciarono negli anni a commerciare con questo ed impararono ad avere rapporti più basati sulla compravendita, con le genti messi a difesa dei confini, che non sullo scontro armato sul campo. Se poi si pensa che vista la smisurata lunghezza dei confini era solo nelle zone considerate più “calde” che veniva inviato un esercito composto da soli romani, ma che anzi solitamente solo il capo dell’esercito era un romano, accadeva che a combattere, o ad essere addestrati per farlo, erano genti arruolate sul luogo che spesso per povertà e povertà di costumi si sentivano più vicini agli invasori che non ai propri padroni.
Con il tempo perciò molti, tra le popolazioni oltre confine, grazie alla corruzione dilagante, grazie a concessioni dette più semplicemente “mazzette”, grazie anche a veri e propri sforamenti nelle mura di confine, riuscivano ad entrare, ad immigrare nel grande impero romano senza colpo ferire, a farsi una vita al di qua delle mura, ed a volte presi per cittadini a tutti gli effetti venivano anche arruolati e mandati a combattere contro quelli che erano stati allora le persone con cui erano vissuti, le genti della loro stessa popolazione.
Come non prefigurarsi una caduta massiccia dei confini in un secondo momento, viste le premesse?
Terza e forse principale causa della caduta dell’impero fu probabilmente proprio quella corruzione che non trovava più freno e denunce.
È vero che se nell’immaginario collettivo di oggi la corruzione è vista come un mostro grande e grosso che i cattivi dello Stato e del governo alimentano contro i buoni e i saggi moralisti i quali lo additano ormai impotenti al misfatto, in realtà non è tanto differente trovarla in quei fatti un po’ più sporchi del dovuto (difficili da ritenere troppo sporchi, per noi che li vediamo succedere “dal di dentro”), un po’ più sporchi degli altri, che oggi ci vediamo scorrere non sempre silenziosamente sotto gli occhi…
Si dice allora che la scarsa manutenzione delle strade dell’impero, a lungo andare, abbiano impedito ai messaggi di raggiungerne i confini, e le notizie di arrivare a Roma in maniera tanto celere da causare le numerose sconfitte dell’esercito; non lontano da questo potremmo vedere i disastri dei nostri cantieri, spesso subappaltati a ditte sempre più speculatrici e meno competenti, o che tendono più a far si che possano poi curarsi della manutenzione dell’opera commissionata che non della buona costruzione della stessa.
Visto poi che non si parla di una grossa corruzione a livello militare che avrebbe potuto investire l’esercito dell’impero romano come successe in Vietnam, dove i capi militari di Hanoi chiedevano tangenti anche solo per consentire le più semplici missioni di offesa o di difesa, non si può non pensare ad una corruzione, quella romana, che si trasforma e che ha le sembianze dei piccoli o grandi abusi di potere, dei sotterfugi più o meno conclamati per aggirare le leggi, quelle stesse leggi che quasi come oggi sembrano sempre più lontane dai costumi sociali da non rispecchiare le esigenze della vita di tutti i giorni, quel tipo di corruzione insomma, o se volete malcostume, che siamo soliti notare e deprecare ogni giorno anche noi oggi. Corruzione questa che sembra più apparire come ombra dello Stato, come Stato nello Stato, che non come qualcosa di riconoscibile in un singolo fatto e di facilmente additabile perché uno, e che dilagata in maniera massiccia ed irrefrenabile ha causato lo sgretolarsi di un sistema tanto efficace quale era quello del mantenimento del governo romano.
Forse infine, uno degli esempi più toccanti e curiosi che è possibile riportare in quest’articolo di somiglianza tra le due epoche, cioè quella nostra e quella dell’impero romano, è senz’altro quello che vede nel 2001 due civiltà trovarsi improvvisamente a confronto. Con la caduta delle famose torri americane e con le indagini che ne sono seguite, il fatto di come la corruzione avrebbe permesso l’entrata di persone non del tutto conformi agli standard, dai confini americani e l’uscita successivamente di possibili collaboratori agli attentati, certo non può non stuzzicare le similitudini di chi vede anche nell’immigrazione di massa le nuove invasioni barbariche.
Ed il fatto di come l’immigrazione clandestina in Europa vede sempre, fortunatamente, un atteggiamento di indiscussa tolleranza da parte dei più nei confronti di chi pacificamente viene a vivere da noi e che ormai, rispettanti dei costumi e delle leggi, vediamo vivere tra noi come noi, non può che far tornare la mente a quel lontano periodo della storia.
Di come poi, per continuar gli esempi, il nostro occidente stia imponendo il suo stile di vita, i suoi costumi e le sue merci tra le “genti oltre confine” è anche futile parlarne…
Per questi e mille altri esempi di vaghe somiglianze si potrebbe parlare forse di eventi e situazioni che ritornano nel tempo, o forse meglio è un’occasione per mettere delle civiltà di tempi differenti a confronto, ma forse ancora meglio e ben più semplicemente non sarebbe difficile usare tali similitudini per ribadire un concetto fondamentale nella storia dell’uomo, cioè che proprio lo studio accurato della storia stessa ci può permettere di conoscere meglio il nostro presente. È una storia magistre che ci può fare da piccolo lumino per il futuro, illuminando comunque a chiare luci i problemi di oggi ed anche le strade nefaste da non percorrere. Certo non è la mistificazione e la generalizzazione delle cose e delle cause che possono portare ai presupposti per una via sicura e priva di equivoci.
Storia Magistre…
“Quando per esempio un Greco si recava a Babilonia, Zeus e Apollo passavano in second’ordine e egli si sentiva tenuto a rispettare specialmente gli dei indigeni. È questo il significato che avevano gli altari con la scritta : “Agli dei sconosciuti ”…” [Oswald Spengler - Il tramonto dell’occidente.]
- Più di un autore, parlando della storia, ha speso parole o anche libri interi per cercare di dimostrare come questa risulti essere a volte “un non so che” di circolare, di eventi che tendono ad inseguirsi e ripetersi, a ripresentarsi nel tempo, a distanza di secoli magari, con caratteristiche simili, con forme quasi uguali tra loro. Da storici veri e propri quali Spengler e Toynbee, a filosofi dai caratteri Nietscheani di fama più o meno internazionale, abbiamo avuto spesso quasi una raccolta di avvenimenti o episodi che possano avvalorare idee e tesi che confermino tali teorie. Spesso questi pensatori usano accostare avvenimenti potenzialmente simili tra loro, ad idee però, bisogna dirlo, di comparazione più vaghe che ovvie.
Lungi da me in questa sede accanirsi contro gli autori di una tale e coraggiosa teoria, ma anzi appare curioso cercare di spiegare come provando a leggere ed interpretare quelli che sono questi nostri anni, non si finisca per trovare impronte familiari con gli anni dei secoli passati della caduta di uno dei più grandi, e forse più duraturi, imperi di tutti i tempi, quello Romano.
Sicuramente più di uno di questi studiosi avrebbe preso gli avvenimenti, anche quelli più recenti della nostra storia, per avere una ricchezza di esempi a sua propria disposizione certo che la loro quantità non risulta indifferente, e certo del fatto che sommariamente questi si prestano molto bene alla causa. Come un grande filone d’oro nel selvaggio west, il miraggio di un così semplice paragone infatti può saltare agli occhi anche ai più scettici o miscredenti.
Durante la caduta dell’impero romano, che mai come in questo caso è da ricordare come un processo lento di decenni, di qualche generazione anche, e non certo effetto di un singolo evento come una guerra o magari un atto di insubordinazione o cose di questo genere, durante la caduta dell’impero romano dicevamo, l’erosione lenta dei suoi sistemi ben consolidati di mantenimento del potere costituito può essere ridotta, in maniera molto riduttiva e quasi semplicistica, a tre cause politiche ben precise forse un po’ meno note. La prima era dovuta ad uno spostamento, ad una ricerca meglio, dei popoli oltre confine, di ricchezze più “visibili” o immediate di quelle di cui gia usufruivano: vuoi terre, vuoi bottini, vuoi donne e bestiame, cose che li spinse in maniera sempre più marcata e determinante a premere sui confini dell’impero. Insomma la prima causa erano certo le così dette invasioni barbariche.
Il secondo innegabile fattore, che si venne a scoprire piuttosto nel tempo più che risultare agli occhi palesemente come il primo, era una lenta ma sempre più notevole unione, per osmosi potremmo dire visto il fatto che veramente si poteva percepire solo a distanza di lunghi anni, un’unione tra le popolazioni di confine e quelle che al di qua del confine gia vivevano. I popoli che infatti non potevano, per ricchezze e potenza o solo perché non erano in grado per disorganizzazione, condurre guerre durature e continue contro il nemico romano cominciarono negli anni a commerciare con questo ed impararono ad avere rapporti più basati sulla compravendita, con le genti messi a difesa dei confini, che non sullo scontro armato sul campo. Se poi si pensa che vista la smisurata lunghezza dei confini era solo nelle zone considerate più “calde” che veniva inviato un esercito composto da soli romani, ma che anzi solitamente solo il capo dell’esercito era un romano, accadeva che a combattere, o ad essere addestrati per farlo, erano genti arruolate sul luogo che spesso per povertà e povertà di costumi si sentivano più vicini agli invasori che non ai propri padroni.
Con il tempo perciò molti, tra le popolazioni oltre confine, grazie alla corruzione dilagante, grazie a concessioni dette più semplicemente “mazzette”, grazie anche a veri e propri sforamenti nelle mura di confine, riuscivano ad entrare, ad immigrare nel grande impero romano senza colpo ferire, a farsi una vita al di qua delle mura, ed a volte presi per cittadini a tutti gli effetti venivano anche arruolati e mandati a combattere contro quelli che erano stati allora le persone con cui erano vissuti, le genti della loro stessa popolazione.
Come non prefigurarsi una caduta massiccia dei confini in un secondo momento, viste le premesse?
Terza e forse principale causa della caduta dell’impero fu probabilmente proprio quella corruzione che non trovava più freno e denunce.
È vero che se nell’immaginario collettivo di oggi la corruzione è vista come un mostro grande e grosso che i cattivi dello Stato e del governo alimentano contro i buoni e i saggi moralisti i quali lo additano ormai impotenti al misfatto, in realtà non è tanto differente trovarla in quei fatti un po’ più sporchi del dovuto (difficili da ritenere troppo sporchi, per noi che li vediamo succedere “dal di dentro”), un po’ più sporchi degli altri, che oggi ci vediamo scorrere non sempre silenziosamente sotto gli occhi…
Si dice allora che la scarsa manutenzione delle strade dell’impero, a lungo andare, abbiano impedito ai messaggi di raggiungerne i confini, e le notizie di arrivare a Roma in maniera tanto celere da causare le numerose sconfitte dell’esercito; non lontano da questo potremmo vedere i disastri dei nostri cantieri, spesso subappaltati a ditte sempre più speculatrici e meno competenti, o che tendono più a far si che possano poi curarsi della manutenzione dell’opera commissionata che non della buona costruzione della stessa.
Visto poi che non si parla di una grossa corruzione a livello militare che avrebbe potuto investire l’esercito dell’impero romano come successe in Vietnam, dove i capi militari di Hanoi chiedevano tangenti anche solo per consentire le più semplici missioni di offesa o di difesa, non si può non pensare ad una corruzione, quella romana, che si trasforma e che ha le sembianze dei piccoli o grandi abusi di potere, dei sotterfugi più o meno conclamati per aggirare le leggi, quelle stesse leggi che quasi come oggi sembrano sempre più lontane dai costumi sociali da non rispecchiare le esigenze della vita di tutti i giorni, quel tipo di corruzione insomma, o se volete malcostume, che siamo soliti notare e deprecare ogni giorno anche noi oggi. Corruzione questa che sembra più apparire come ombra dello Stato, come Stato nello Stato, che non come qualcosa di riconoscibile in un singolo fatto e di facilmente additabile perché uno, e che dilagata in maniera massiccia ed irrefrenabile ha causato lo sgretolarsi di un sistema tanto efficace quale era quello del mantenimento del governo romano.
Forse infine, uno degli esempi più toccanti e curiosi che è possibile riportare in quest’articolo di somiglianza tra le due epoche, cioè quella nostra e quella dell’impero romano, è senz’altro quello che vede nel 2001 due civiltà trovarsi improvvisamente a confronto. Con la caduta delle famose torri americane e con le indagini che ne sono seguite, il fatto di come la corruzione avrebbe permesso l’entrata di persone non del tutto conformi agli standard, dai confini americani e l’uscita successivamente di possibili collaboratori agli attentati, certo non può non stuzzicare le similitudini di chi vede anche nell’immigrazione di massa le nuove invasioni barbariche.
Ed il fatto di come l’immigrazione clandestina in Europa vede sempre, fortunatamente, un atteggiamento di indiscussa tolleranza da parte dei più nei confronti di chi pacificamente viene a vivere da noi e che ormai, rispettanti dei costumi e delle leggi, vediamo vivere tra noi come noi, non può che far tornare la mente a quel lontano periodo della storia.
Di come poi, per continuar gli esempi, il nostro occidente stia imponendo il suo stile di vita, i suoi costumi e le sue merci tra le “genti oltre confine” è anche futile parlarne…
Per questi e mille altri esempi di vaghe somiglianze si potrebbe parlare forse di eventi e situazioni che ritornano nel tempo, o forse meglio è un’occasione per mettere delle civiltà di tempi differenti a confronto, ma forse ancora meglio e ben più semplicemente non sarebbe difficile usare tali similitudini per ribadire un concetto fondamentale nella storia dell’uomo, cioè che proprio lo studio accurato della storia stessa ci può permettere di conoscere meglio il nostro presente. È una storia magistre che ci può fare da piccolo lumino per il futuro, illuminando comunque a chiare luci i problemi di oggi ed anche le strade nefaste da non percorrere. Certo non è la mistificazione e la generalizzazione delle cose e delle cause che possono portare ai presupposti per una via sicura e priva di equivoci.
Daniele Di Giovanni
Territori di gusto
Al ritorno dalle vacanze molti di noi si sono mossi verso altri luoghi, in Italia o all’estero, cambiando abitudini (magari svegliandosi all’una piuttosto che alle sei e mezza come ogni mattina) e in parte alimentazione. Ogni luogo conserva prodotti tipici e vini da abbinare, di questo sono piene le varie rubriche ormai in voga in giornali e telegiornali, ma vogliamo parlare di un associazione che del rapporto tra territorio, vini e cultura del vivere bene ha fatto una bandiera ed una filosofia lo “Slow food”. L’associazione, rigorosamente non profit, è nata in Italia nel 1986 e si è estesa in 130 paesi nel mondo. Nasce come risposta al fast food, come il nome stesso dichiara, opponendosi tanto all’omogeneizzazione dei sapori quanto all’idea che il pasto sia qualcosa da “ottimizzare” quindi mangiare quello che ci serve nel minor tempo possibile. Promuove l’educazione all’enogastronomia consentendo al consumatore di scegliere ciò che gradisce fornendo in primo luogo la formazione di un gusto più raffinato, in questo modo tenta di indirizzare la spesa verso quei produttori che mantengono alti standard di qualità e produzioni salutari.
Tra le attività dell’associazione troviamo una serie di pubblicazioni che vanno dalle guide delle osterie, locali, vini e prodotti tipici e per chi ama viaggiare col palato “Itinerari slow” consente di muoversi senza fretta tra arte, vino, natura e gastronomia scoprendo in che modo le varie popolazioni sono riuscite ad armonizzare il territorio alla tavola.
Per chi volesse approfondire l’argomento consigliamo il saggio di Gorge Ritzer, “La globalizzazione del nulla”, non il lavoro di un nichilista geopolitico bensì un docente di sociologia che ha analizzato i meccanismi alla base della “macdonaldizzazione della società”. In riferimento al tema dell’articolo si affronta il capitolo dei “non-luoghi”, acquacoltura praticata in maniera meccanica, bovini allevati in spazi troppo piccoli o fattorie dove i polli vengono fatti crescere e macellare in poche settimane e al tempo stesso ristorazioni identiche da Tokyo a New York che non consentono al palato di godere della differenza profonda dei luoghi.
Slow Food non è soltanto gastronomia ed editoria, è anche una fondazione attiva nella difesa della Biodiversità ed un’Universita degli studi di scienze gastronomiche (di sicuro interesse è il Master in Food Culture rivolto ad un pubblico internazionale per fornire una conoscenza approfondita e specializzata del concetto di qualità).
Un appuntamento impedibile per tutti gli enogastronomi è il Salone del Gusto, presente a Torino dal 26 al 30 ottobre 2006, un ampio spazio espositivo nel quale vedere le produzioni artigianali, comprendere come si muova il mercato della gastronomia locale nel mondo e scoprire l’altra faccia del pianeta dell’alimentazione degustando prodotti eccellenti ma poco conosciuti. Oltre al settore di diffusione enogastronomico l’evento ha proposto una serie di conferenze e incontri che vanno dal rapporto tra agricoltura sostenibile e biodiversità al legame tra conflitti armati e produzioni agricole.
Non sono mancati gli accostamenti tra cibo e letteratura, un esempio è l’intervento di Edoardo Sanguinetti con sue incursioni nelle avanguardie storiche dove il cibo diventa occasione per uno spettacolo estremamente provocatorio e divertente; il tutto in collaborazione con la Fondazione per il libro.
Territori di gusto
Al ritorno dalle vacanze molti di noi si sono mossi verso altri luoghi, in Italia o all’estero, cambiando abitudini (magari svegliandosi all’una piuttosto che alle sei e mezza come ogni mattina) e in parte alimentazione. Ogni luogo conserva prodotti tipici e vini da abbinare, di questo sono piene le varie rubriche ormai in voga in giornali e telegiornali, ma vogliamo parlare di un associazione che del rapporto tra territorio, vini e cultura del vivere bene ha fatto una bandiera ed una filosofia lo “Slow food”. L’associazione, rigorosamente non profit, è nata in Italia nel 1986 e si è estesa in 130 paesi nel mondo. Nasce come risposta al fast food, come il nome stesso dichiara, opponendosi tanto all’omogeneizzazione dei sapori quanto all’idea che il pasto sia qualcosa da “ottimizzare” quindi mangiare quello che ci serve nel minor tempo possibile. Promuove l’educazione all’enogastronomia consentendo al consumatore di scegliere ciò che gradisce fornendo in primo luogo la formazione di un gusto più raffinato, in questo modo tenta di indirizzare la spesa verso quei produttori che mantengono alti standard di qualità e produzioni salutari.
Tra le attività dell’associazione troviamo una serie di pubblicazioni che vanno dalle guide delle osterie, locali, vini e prodotti tipici e per chi ama viaggiare col palato “Itinerari slow” consente di muoversi senza fretta tra arte, vino, natura e gastronomia scoprendo in che modo le varie popolazioni sono riuscite ad armonizzare il territorio alla tavola.
Per chi volesse approfondire l’argomento consigliamo il saggio di Gorge Ritzer, “La globalizzazione del nulla”, non il lavoro di un nichilista geopolitico bensì un docente di sociologia che ha analizzato i meccanismi alla base della “macdonaldizzazione della società”. In riferimento al tema dell’articolo si affronta il capitolo dei “non-luoghi”, acquacoltura praticata in maniera meccanica, bovini allevati in spazi troppo piccoli o fattorie dove i polli vengono fatti crescere e macellare in poche settimane e al tempo stesso ristorazioni identiche da Tokyo a New York che non consentono al palato di godere della differenza profonda dei luoghi.
Slow Food non è soltanto gastronomia ed editoria, è anche una fondazione attiva nella difesa della Biodiversità ed un’Universita degli studi di scienze gastronomiche (di sicuro interesse è il Master in Food Culture rivolto ad un pubblico internazionale per fornire una conoscenza approfondita e specializzata del concetto di qualità).
Un appuntamento impedibile per tutti gli enogastronomi è il Salone del Gusto, presente a Torino dal 26 al 30 ottobre 2006, un ampio spazio espositivo nel quale vedere le produzioni artigianali, comprendere come si muova il mercato della gastronomia locale nel mondo e scoprire l’altra faccia del pianeta dell’alimentazione degustando prodotti eccellenti ma poco conosciuti. Oltre al settore di diffusione enogastronomico l’evento ha proposto una serie di conferenze e incontri che vanno dal rapporto tra agricoltura sostenibile e biodiversità al legame tra conflitti armati e produzioni agricole.
Non sono mancati gli accostamenti tra cibo e letteratura, un esempio è l’intervento di Edoardo Sanguinetti con sue incursioni nelle avanguardie storiche dove il cibo diventa occasione per uno spettacolo estremamente provocatorio e divertente; il tutto in collaborazione con la Fondazione per il libro.
Daniele Di Giovanni
Riflessione sulle parole del pontefice.
Le conseguenze delle parole sono tanto più forti quanto più la voce è autorevole. Questo semplice monito si è mosso in direzione del più alto rappresentante della Chiesa Romana, accusato di una mancanza di prospettiva politica e diplomatica, in un periodo storico in cui i rapporti con la cultura islamica sono estremamente tesi la ragionevolezza è un lusso che non ci si può concedere a cuor leggero. Quando la diffusione delle idee è affidata ad uno slogan la scelta del medesimo deve essere misurata e precisa: in un discorso di ampio respiro, in una citazione, è semplice, fin troppo semplice, togliere le virgolette e affidarla al relatore. Anche quando il relatore chiarisce in modo inequivocabile la fonte del testo a cui fa riferimento, anche quando ciò che si vuole mettere in evidenza lo si scrive subito dopo la citazione : “L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, leggere quello che si vuole è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. È più conveniente porre l’accento sull’osservazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo :“ Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. Il fatto poi che il discorso sia stato un modo per introdurre i rapporti tra logos e fede è semplicemente un punto marginale. Puntare l’accento sulla trascendenza assoluta o relativa della volontà divina per le due religioni non sarebbe stato egualmente scenografico, non si scende in piazza o non si manifesta o non si uccide per il centro del discorso, per quel che il pontefice voleva dire; le citazioni trattate come slogan sono formalmente perfette per diffondersi come epidemia.
La serena diffusione e commento di idee mal si concilia con un ruolo politico che si richiede, ed i commenti che si sono diffusi sui quotidiani avevano tale matrice, al teologo Ratzinger. Un ruolo politico di rasserenamento e pacificazione, anche quando lo scontro è portato avanti da un’equipe intellettuale che si mobilita per fare in modo che l’occidente non prenda minimamente posizione neppure attraverso una citazione, anche quando l’autore della stessa prende le distanze dal pensiero riportato, come se avesse precedentemente ammesso di concordare con le posizioni dell’autore.
La presa di distanza ufficializzata al mondo arabo attraverso un mea culpa del pontefice fa pensare alle parole di Oriana Fallaci nella “Forza della Ragione”: «C’è il declino dell’intelligenza. Quella individuale e quella collettiva. Quella inconscia che guida l’istinto di sopravvivenza e quella conscia che guida la facoltà di capire, apprendere, giudicare, e quindi distinguere il Bene dal Male… Il declino dell’intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che accade oggi in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione… Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi ci vuole passione. Ma qui non si tratta di vivere e basta. Qui si tratta di sopravvivere. E per sopravvivere ci vuole la Ragione. Il raziocinio, il buonsenso, la Ragione…»
Nessuno si aspetta che un pontefice della preparazione culturale di Raztinger abbia potuto commettere un banale errore, o che non abbia preso in considerazione le conseguenze delle proprie azioni. Si può accusarlo di scarsa sensibilità politica ma non certo di scarso intelletto. È auspicabile che un giornalista non debba correggere i discorsi di un pontefice, in tal caso sarebbe ben difficile continuare a considerarlo un valido referente tanto della cristianità quanto del dibattito culturale e politico mondiale.
Riflessione sulle parole del pontefice.
Le conseguenze delle parole sono tanto più forti quanto più la voce è autorevole. Questo semplice monito si è mosso in direzione del più alto rappresentante della Chiesa Romana, accusato di una mancanza di prospettiva politica e diplomatica, in un periodo storico in cui i rapporti con la cultura islamica sono estremamente tesi la ragionevolezza è un lusso che non ci si può concedere a cuor leggero. Quando la diffusione delle idee è affidata ad uno slogan la scelta del medesimo deve essere misurata e precisa: in un discorso di ampio respiro, in una citazione, è semplice, fin troppo semplice, togliere le virgolette e affidarla al relatore. Anche quando il relatore chiarisce in modo inequivocabile la fonte del testo a cui fa riferimento, anche quando ciò che si vuole mettere in evidenza lo si scrive subito dopo la citazione : “L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, leggere quello che si vuole è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. È più conveniente porre l’accento sull’osservazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo :“ Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. Il fatto poi che il discorso sia stato un modo per introdurre i rapporti tra logos e fede è semplicemente un punto marginale. Puntare l’accento sulla trascendenza assoluta o relativa della volontà divina per le due religioni non sarebbe stato egualmente scenografico, non si scende in piazza o non si manifesta o non si uccide per il centro del discorso, per quel che il pontefice voleva dire; le citazioni trattate come slogan sono formalmente perfette per diffondersi come epidemia.
La serena diffusione e commento di idee mal si concilia con un ruolo politico che si richiede, ed i commenti che si sono diffusi sui quotidiani avevano tale matrice, al teologo Ratzinger. Un ruolo politico di rasserenamento e pacificazione, anche quando lo scontro è portato avanti da un’equipe intellettuale che si mobilita per fare in modo che l’occidente non prenda minimamente posizione neppure attraverso una citazione, anche quando l’autore della stessa prende le distanze dal pensiero riportato, come se avesse precedentemente ammesso di concordare con le posizioni dell’autore.
La presa di distanza ufficializzata al mondo arabo attraverso un mea culpa del pontefice fa pensare alle parole di Oriana Fallaci nella “Forza della Ragione”: «C’è il declino dell’intelligenza. Quella individuale e quella collettiva. Quella inconscia che guida l’istinto di sopravvivenza e quella conscia che guida la facoltà di capire, apprendere, giudicare, e quindi distinguere il Bene dal Male… Il declino dell’intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che accade oggi in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione… Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi ci vuole passione. Ma qui non si tratta di vivere e basta. Qui si tratta di sopravvivere. E per sopravvivere ci vuole la Ragione. Il raziocinio, il buonsenso, la Ragione…»
Nessuno si aspetta che un pontefice della preparazione culturale di Raztinger abbia potuto commettere un banale errore, o che non abbia preso in considerazione le conseguenze delle proprie azioni. Si può accusarlo di scarsa sensibilità politica ma non certo di scarso intelletto. È auspicabile che un giornalista non debba correggere i discorsi di un pontefice, in tal caso sarebbe ben difficile continuare a considerarlo un valido referente tanto della cristianità quanto del dibattito culturale e politico mondiale.
Daniele Di Giovanni
La morte di una voce
Un proverbio diceva: pesa più la penna che la vanga; pesa più la penna quando lo scrivere vuol dire mostrare, chiedere e non essere semplicemente un portavoce, un divulgatore di regime. Una penna solida, pungente e con la volontà di mettere in chiare le motivazioni di un azione.
Stiamo parlando dell’assassinio della giornalista russa Anna Politkoskaya, il 7 ottobre 2006. La sua redazione, quella del bisettimanale Novaia Gazeta, ha ipotizzato due possibili moventi, entrambi riconducibili a Ramsan Kadyrov: “possiamo avanzare due ipotesi: una vendetta di Kadyvor per quello che lei aveva scritto e continuava a scrivere su di lui, o l’azione di chi voleva addossare al premier ceceno l’omicidio per impedirgli di arrivare alla presidenza cecena” leggiamo dal sito del bisettimanale. Kadivor è un uomo che, sostenuto dal governo Putin, si assicurava l’obbedienza popolare attraverso la violenza delle sue “squadre della morte”, come le aveva più volte definite la Politkovskaya nei suoi articoli. Secondo alcune indiscrezioni anche l’ultimo lavoro della giornalista avrebbe riguardato i casi di tortura in Cecenia pilotati dallo stesso Kadirov, le parole che si sentono nel video che la giornalista avrebbe pubblicato chiariscono l’oggetto di un inchiesta scomoda. La Novaya Gazeta ha pubblicato un estratto del dialogo tradotto dal dialetto ceceno: Prima voce: "Putin ha detto 'guardate da tutte le parti'..."
Seconda voce: "Ragiona ancora! Questo p... non vuole morire, è ancora cosciente, nulla lo ucciderà... Guardate come è bello. Soffro se non ti vedo".
Terza voce: "Respira, fratello! Respira, per carità. Ti dico...".
Prima voce: "Questo è andato?"
Seconda voce: "Sì, è andato".
Prima voce: "Allora andiamo via, venite qui".
Terza voce: "Prendete... Mettetevi in posizione, tenete d'occhio la zona".
Da più parti si sollecita un inchiesta, la chiede il dipartimento di Stato Americano ricordando i dodici giornalisti ucciso negli ultimi sei anni, la chiede l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa che assegnò nel 2003 un premio alla cronista russa per la campagna in difesa dei diritti umani in Cecenia, la chiede anche l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbachev sottolineando come tale assassinio sia un crimine contro la democrazia.
Mentre l’Europa assume una posizione più morbida, attraverso il presidente finlandese, esprimendo rammarico per l’efferato assassinio della giornalista. La reazione chiara del governo Russo è venuta due giorni dopo, quando Putin ha rotto il silenzio nei confronti della vicenda esprimendo la ferma volontà del Cremino di avviare un inchiesta nei confronti degli assassini di Anna. Putin, in un intervista a Daniel Broessler, ha affermato, oltre ad alcune frasi di circostanza, che tale assassinio costituisce in primo luogo un danno all’immagine della Russia come Stato democratico, ed in secondo luogo lo scarso peso politico della Politkovskaya tale da non giustificare una reazione tanto dura da parte di Kadyrov. Ed in realtà, vedendo la vicenda da un punto di vista d’immagine, la morte della giornalista ha fatto puntare l’obiettivo sulla situazione della stampa russa (al 140mo posto per libertà di stampa) molto più di ogni articolo o foto sulla situazione cecena, c’è da pensare o che chi ha organizzato l’omicidio non abbia pensato ai risvolti d’immagine o che li abbia calcolati preventivamente (esattamente come ha osservato la redazione del giornale).
La stessa redazione sta organizzando un inchiesta indipendente per scoprire i mandati e gli esecutori, mentre gli azionisti per periodico per cui lavorava hanno offerto una ricompensa di oltre 700 mila euro per chi aiuterà a fare luce.
La morte di una voce
Un proverbio diceva: pesa più la penna che la vanga; pesa più la penna quando lo scrivere vuol dire mostrare, chiedere e non essere semplicemente un portavoce, un divulgatore di regime. Una penna solida, pungente e con la volontà di mettere in chiare le motivazioni di un azione.
Stiamo parlando dell’assassinio della giornalista russa Anna Politkoskaya, il 7 ottobre 2006. La sua redazione, quella del bisettimanale Novaia Gazeta, ha ipotizzato due possibili moventi, entrambi riconducibili a Ramsan Kadyrov: “possiamo avanzare due ipotesi: una vendetta di Kadyvor per quello che lei aveva scritto e continuava a scrivere su di lui, o l’azione di chi voleva addossare al premier ceceno l’omicidio per impedirgli di arrivare alla presidenza cecena” leggiamo dal sito del bisettimanale. Kadivor è un uomo che, sostenuto dal governo Putin, si assicurava l’obbedienza popolare attraverso la violenza delle sue “squadre della morte”, come le aveva più volte definite la Politkovskaya nei suoi articoli. Secondo alcune indiscrezioni anche l’ultimo lavoro della giornalista avrebbe riguardato i casi di tortura in Cecenia pilotati dallo stesso Kadirov, le parole che si sentono nel video che la giornalista avrebbe pubblicato chiariscono l’oggetto di un inchiesta scomoda. La Novaya Gazeta ha pubblicato un estratto del dialogo tradotto dal dialetto ceceno: Prima voce: "Putin ha detto 'guardate da tutte le parti'..."
Seconda voce: "Ragiona ancora! Questo p... non vuole morire, è ancora cosciente, nulla lo ucciderà... Guardate come è bello. Soffro se non ti vedo".
Terza voce: "Respira, fratello! Respira, per carità. Ti dico...".
Prima voce: "Questo è andato?"
Seconda voce: "Sì, è andato".
Prima voce: "Allora andiamo via, venite qui".
Terza voce: "Prendete... Mettetevi in posizione, tenete d'occhio la zona".
Da più parti si sollecita un inchiesta, la chiede il dipartimento di Stato Americano ricordando i dodici giornalisti ucciso negli ultimi sei anni, la chiede l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa che assegnò nel 2003 un premio alla cronista russa per la campagna in difesa dei diritti umani in Cecenia, la chiede anche l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbachev sottolineando come tale assassinio sia un crimine contro la democrazia.
Mentre l’Europa assume una posizione più morbida, attraverso il presidente finlandese, esprimendo rammarico per l’efferato assassinio della giornalista. La reazione chiara del governo Russo è venuta due giorni dopo, quando Putin ha rotto il silenzio nei confronti della vicenda esprimendo la ferma volontà del Cremino di avviare un inchiesta nei confronti degli assassini di Anna. Putin, in un intervista a Daniel Broessler, ha affermato, oltre ad alcune frasi di circostanza, che tale assassinio costituisce in primo luogo un danno all’immagine della Russia come Stato democratico, ed in secondo luogo lo scarso peso politico della Politkovskaya tale da non giustificare una reazione tanto dura da parte di Kadyrov. Ed in realtà, vedendo la vicenda da un punto di vista d’immagine, la morte della giornalista ha fatto puntare l’obiettivo sulla situazione della stampa russa (al 140mo posto per libertà di stampa) molto più di ogni articolo o foto sulla situazione cecena, c’è da pensare o che chi ha organizzato l’omicidio non abbia pensato ai risvolti d’immagine o che li abbia calcolati preventivamente (esattamente come ha osservato la redazione del giornale).
La stessa redazione sta organizzando un inchiesta indipendente per scoprire i mandati e gli esecutori, mentre gli azionisti per periodico per cui lavorava hanno offerto una ricompensa di oltre 700 mila euro per chi aiuterà a fare luce.
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